È un brutto momento per il Belgio e per il ciclismo belga in particolare. Sarà per via di una bizzarra concentrazione astrale, ma in una nazione già ferita e sottosopra per i recenti attentati terroristici di Bruxelles, ora si devono versare lacrime anche per la morte di due giovani che non facevano altro che andare in bicicletta. Era la passione di entrambi: sia di Antoine Demoitié, 25 anni belga morto in seguito ad una caduta alla Gand-Wevelgem di domenica scorsa e brutalmente falciato da una moto del seguito; sia di Daan Myngheer, 22 enne corridore della Roubaix Lille Metropole, che si è spento ieri all’ospedale di Ajaccio, dopo essere stato colpito da un attacco cardiaco sabato mattina, durante la prima tappa del “Criterium International”. Ma a questo punto vanno dette subito due cose: il povero Demoitié è morto in seguito a caduta perché è stato travolto da una moto dell’organizzazione. E in materia è necessario fare qualcosa, perché nell’ultimo anno e mezzo tantissime troppe vetture del seguito e moltissime moto hanno causato danni a corridori in corsa. In Italia - è bene dirlo - c’è una cultura organizzativa molto più alta, rigorosa e profonda che in Belgio. I mezzi al seguito sono ridotti al minimo, seguendo la logica del “numero chiuso”. Chi guida moto o vetture al seguito, sono generalmente ex corridori o ex direttori sportivi. In Belgio, dove la passione è trasbordante invece è un vero delirio. Ci sono da sempre più mezzi al seguito che corridori. Con la morte di Daan Myngheer, invece, si pone un altro tipo problema e considerazione: quello legato alle visite di idoneità. Vi ricordate la vicenda legata all’ex giocatore dell’Inter Christian Kanu? Solo quando arrivò da noi fu diagnosticata al nigeriano una malformazione cardiaca. Per l’Ajax, da dove proveniva il giocatore, era tutto ok. Non è detto che il povero corridore belga abbia avuto un problema analogo non diagnosticato: non è stato ancora provato, ma non è da escludere. Poi c’è il discorso legato alla sicurezza dei corridori ciclisti, argomento di estrema attualità che non va trascurato. L’auspicio è che si faccia sempre di più e sempre di meglio per rendere le corse più spettacolari e sicure. Però evitiamo di cascare dal pero. Di scoprire solo oggi che il ciclismo è sport duro ma anche pericoloso: lo è sempre stato. E proprio per questo su di esso è stata costruita con pathos la sua epica. Non è solo un esercizio retorico fine a se stesso quello di Orio Vergani o Dino Buzzati, c’è il pathos di un esercizio sportivo che non è di tutti e per tutti. Non è solo un esercizio di stilemi quando Mario Fossati - uno dei grandi del giornalismo sportivo - scrive che i corridori si buttano giù a “tomba aperta”. È un modo chiaro e immediato per dire quello che facevano e fanno i corridori quando si trovano a dover affrontare una discesa del Galibier o del Tourmalet. Si parla di “inferno del nord”, non perché si vuole sempre esagerare e forzare l’epica del gesto di questi “eroi della strada”, ma perché alla Roubaix e in particolare nella Foresta di Arenberg l’osso del collo i corridori lo rischiano per davvero. Non è un mistero se diciamo che il ciclismo è uno sport pericoloso. È un’ovvietà, che per anni è stata raccontata, ma come spesso accade, con il tempo ci si è abituati a tutto: anche ad un linguaggio, convinti che fosse semplicemente un esercizio di stilemi: commedia o prosa? Invece, purtroppo per noi, il ciclismo può rappresentare anche la sua tragedia. Il tratto che meno ci piace.
© RIPRODUZIONE RISERVATA I due giovani ciclisti belgi uniti dallo stesso tragico destino, sia pure per motivi diversi. Le loro morti ripropongono il dibattito, di stretta attualità, sulla salute e la sicurezza dei corridori Daan Myngheer