venerdì 19 marzo 2021
Un volume ripercorre la stagione delle mostre fiorentine dedicate a Wright, Le Corbusier e Aalto. Tre momenti di un solo progetto culturale ed etico per la ricostruzione del Paese e degli italiani
Carlo Ludovico Ragghianti e Frank Lloyd Wright a Palazzo Strozzi

Carlo Ludovico Ragghianti e Frank Lloyd Wright a Palazzo Strozzi - Fondazione Ragghianti

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Usciti dalla Seconda guerra mondiale, la ricostruzione aveva un significato materiale, ma doveva essere soprattutto civile. Si trattava di fare gli italiani, che non si erano mai effettivamente uniti nel paese che quasi un secolo prima aveva celebrato l’Unificazione. Si trattava di far capire a un popolo diviso, con un mosaico di identità segnate dalle antiche dominazioni e da una dolorosa separazione tra le élite e le plebi, che unirsi non significava perdere le proprie tradizioni, ma anzitutto raggiungere una coscienza “politica”, fondata anche su una lingua nazionale, capace di reggere il confronto con i paesi europei di più antica democrazia e civiltà, e vincitori.

De Gasperi cercò di far capire questo, non soltanto al popolo degli italiani ancora da fare, ma soprattutto agli europei di fronte ai quali il fascismo e l’alleanza, sia pure interrotta in extremis, con Hitler, pesavano non poco come pregiudizio negativo (e anche come volontà di farci scontare i nostri peccati). Non entrerò in una questione così grande, ma voglio solamente delineare con questi pochi cenni una condizione mentale e psicologica dentro la quale si possa proiettare l’impegno di un grande storico e critico d’arte, un fondatore di importanti riviste, “Critica d’arte” per esempio, un maestro che toccò con le sue riflessioni gran parte degli ambiti di cui l’arte era espressione, fino al cinema compreso. Parlo di Carlo Ludovico Ragghianti, di cui ho già scritto qualche mese fa a proposito del carteggio con Roberto Longhi.

Ragghianti (1910-1987) era un intellettuale solido, con principi estetici ben chiari e tuttora da studiare, a partire dall’idea che l’arte non sia fine a se stessa, cioè non deve ridursi a estetismo, ma essere qualcosa che nasce con un significato e per dire qualcosa che va ben oltre l’arte stessa. Forma e linguaggio retti dall’etica. Rovesciando il principio, dell’art pour l’art, la dialettica fra autonomia ed eteronomia può essere oggi declinata così: «l’arte non è per l’arte».

Ragghianti era convintissimo che l’arte dovesse servire a rendere partecipe l’uomo di una bellezza che è anche valore morale, e con questo spirito subito dopo la fine della guerra s’impegnò perché a Firenze e altrove la modernità dell’arte arrivasse anche alle persone meno aggiornate, facendo loro comprendere che era il frutto di uomini che cercavano di far progredire la vita collettiva e individuale. Responsabilità civile, che lo guidò nella sintesi di teoria e azione.

È con questo spirito di promozione umana e culturale degli italiani che organizzò alcune notevoli rassegne di architettura a Firenze, a Palazzo Strozzi. Ora un’utile ricostruzione critica svolta da una giovane studiosa, Lisa Carotti, s’incentra sullo studio delle ragioni e del metodo che guidarono Ragghianti fra il 1951 e il 1965 nell’organizzare le mostre di tre mostri sacri dell’architettura: Frank Lloyd Wright, Le Corbusier e il finlandese Alvar Aalto.

Mostre memorabili che rispecchiavano tre indoli diverse: Wright gigantesco architetto che sapeva dare dello spazio una forma capace di far dialogare interno ed esterno, uomo e natura, misura umana e spazio pubblico, una idea di città. A riprova di come si vedeva, all’inaugurazione disse: «Tornando qui, nella vostra grande Patria, segnata dal tempo, sento ora tutta la simpatia di un figlio grato che desidera onorare i grandi artisti che videro il tramonto in Occidente – il Rinascimento italiano – e credettero che fosse un’aurora». Parole chiare, e chissà come le recepirono i fiorentini che quella cultura avevano reso grande e di cui Wright si considerava l’erede dopo il crepuscolo dell’Occidente?

Le Corbusier, il profeta del moderno, dei principi cartesiani su cui riorganizzare tutta la città con criteri logico-razionali, ma anche con un senso plastico-espressivo che lo ha reso capace di ricreare «oggetti a reazione poetica» (quelli che pensò ispirandosi alla natura e alla storia). Aalto, l’architetto che col legno e le sue soluzioni d’interni seppe dare a ogni forma un valore poetico e “simbolico” non casuale, un calore e una bellezza quasi arborea.

Il libro ha un titolo evocativo: Del disegno e dell’architettura e centra perfettamente il metodo di Ragghianti, che pur avendo visto poco direttamente di questi architetti, seppe dai loro elaborati, dalle fotografie e dai modelli plastici intuire il segreto della loro arte. Mi ricorda Edoardo Persico, che è spesso citato nel libro: un pioniere della critica d’architettura, che per primo capì l’importanza di Wright, ma anche degli altri maestri del Movimento Moderno e diede loro spazio su “Casabella” di cui fu direttore con Pagano. È una figura leggendaria, di cui restano ampie zone lacunose nella biografia, a cominciare dal fatto che i suoi viaggi europei (fino in Russia) forse non li fece mai, ma viaggiò molto con lo sguardo e la mente attraverso le maggiori riviste straniere dell’epoca. A dimostrazione che non esistono dogmi sul modo del critico di arrivare al nocciolo delle questioni. L’intuizione è sempre un’arma decisiva, legata alla cultura e all’esperienza. Ragghianti si mosse sullo stesso crinale di Persico.

Le mostre, in particolare quella di Wright, non furono di facile realizzazione. L’architetto americano volle progettarla dall’America, inaugurandola là, per poi portarla a Firenze, dove ebbe bisogno di vari adattamenti agli spazi storici. Wright spedì a Ragghianti circa mille disegni, ma gli vietò di pubblicarli in catalogo (minacciando cause legali se veniva meno a questo impegno); Ragghianti decise di passare alcune settimane davanti ai disegni, stese commenti talvolta brevi, altre volte molto dettagliati, che dettò a un assistente. Ora Lisa Carotti ha ritrovato questi materiali che dovevano comporre addirittura sei volumi, e ne pubblica i disegni e i testi dei primi due, una minima parte del terzo, mentre degli altri restano solo tracce di palinsesto.

Le Corbusier mandò i materiali di sette progetti soltanto, perché volle una mostra piena di opere pittoriche e plastiche. E forse aveva ragione, perché la plasticità è tutto nella sua arte e nella sua architettura. Alvar Aalto ricreò negli spazi di Palazzo Strozzi allestimenti che qualche volta occultavano l’architettura storica, usando legno e articolazioni simili a certe sue soluzioni architettoniche. Anche lui aveva ragione.

Nel libro sono pubblicate parecchie foto dell’epoca, con gli architetti che partecipano all’inaugurazione, circondati da folle di ammiratori; ma tutti con una singolare serietà di atteggiamenti che sono lo stile di maestri consapevoli del loro valore. Fa molto pensare questo libro. Fa pensare alle ragioni etiche che muovevano questi grandi intellettuali a pensare esposizioni dal forte impegno sociale, quello della relazione anche educativa col pubblico, e ai modi con cui si fanno ormai in Italia la maggior parte delle esposizioni.

Non stupisce, d’altra parte, che le cose stiano così quando si pensa che la categoria principale che governa anche le scelte del Ministero è attirare il numero maggiore di turisti. I musei chiusi per ragioni sanitarie dovrebbero, in questa prolungata astinenza, farci capire che il turismo come consumo dell’arte è quanto di meno morale avrebbero cercato uomini come Ragghianti che avevano conosciuto i disastri della guerra. Per loro si trattava di pensare mostre necessarie, non occasionali o turistiche. Torneranno questi tempi?


Lisa Carotti
Del disegno e dell’architettura Il pensiero di C.L. Ragghianti.
Analisi critica delle mostre di Wright, Le Corbusier e Aalto a Palazzo Strozzi
Fondazione Ragghianti Pagine 256. Euro 26,00

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