Un disegno per il volto di una santa, opera che Moro attribuisce a Caravaggio
Quando si apre il sipario la scena è vuota, nessun arredo, mobile o qualsivoglia oggetto che possa farci capire dove ci troviamo. Poi, improvvisamente, entrano in scena strani personaggi anonimi, nobildonne e gentiluomini, garzoni e spadaccini, bimbette e giovani dallo sguardo vivo, non le larve di una commedia veneziana, ma immagini dotate di personalità. È la scena allestita dallo studioso Franco Moro nel volume Caravaggio sconosciuto (Allemandi, pp. 368, euro 90) per dare consistenza agli anni giovanili di Caravaggio, anni “fantasma” per così dire. In platea, vengono convocati tutti i testimoni, i maestri, che dovranno confermare una valanga di nuove attribuzioni al genio di Michelangelo Merisi. Qual è il presupposto da cui parte Moro? Quello a tutti noto: finora non esisteva un’opera attribuita con certezza alla mano di Caravaggio prima che scendesse a Roma.
Si sapeva che era stato mandato a bottega dal Peterzano quando aveva poco più di undici anni. Ma crescendo doveva aver girovagato tra Lombardia e Veneto, forse anche a Firenze, e si era creato un background di tutto rispetto: Leonardo, Raffaello, Tiziano, Lotto; i cremonesi Giulio e Vincenzo Campi, e Sofonisba Anguissola; i bergamaschi, Moroni e Gian Paolo Lolmo; meno i bresciani; i fiamminghi (Goltzius e Mor); e l’universo caravaggino poteva aver inciso, con gli affreschi di Fermo Stella (oggi sappiamo che Michelangelo nacque a Milano). E poi la questione del disegno: secondo una vulgata che non sta più in piedi, Caravaggio non disegnava, tutt’al più sullo strato preparatorio del colore avrebbe tracciato col manico del pennello poche linee che gli servivano per definire forme, ingombri e costruzione, come se operasse su una sinopia. Ma – dice Moro, giustamente – la prima cosa che avrà fatto il Peterzano quando si vide arrivare quel ragazzino fu di verificare se avesse talento. Come? Facendolo disegnare, fino alla noia, perché senza disegno non c’è pittura e il disegno è l’ossatura interna della carne pittorica. E poi disegnare doveva essere per Michelangelo, come per molti pittori, un piacere più che una condanna. Dunque? Mettersi a cercare negli archivi, quello dell’Ambrosiana o del Castello Sforzesco, possibili fogli che denotino una mano fuori dal comune.
È finito il tempo del Caravaggio grezzo, sporco, restio alle buone maniere, incolto e dotato di un istinto animale per la realtà, le persone, le forme, per la vita tout court. Un Caravaggio longhiano, umano ma non umanista. Si potrà essere d’accordo sull’ispirazione diretta, sulla ricerca del contatto con le cose, sulla verità terrena, lombarda, cui tende la sua pittura. Ma sfatiamo la leggenda. Anche Caravaggio ebbe i suoi maestri, lavorò duramente per affilare i coltelli in vista del duello con la realtà, e soprattutto per guadagnarsi il rispetto dei pittori del suo tempo. Fu orgoglioso e umile, credo, fin da ragazzo, come lo fu da adulto; avido di apprendere e curioso, come ogni intelligenza viva. Se ci fosse anche un solo dipinto o disegno di sua mano, nelle numerose proposte che Franco Moro avanza, sarebbe già una rivoluzione. Ma qui stiamo parlando di qualcosa di enorme: fra dipinti e disegni saranno un’ottantina le opere di nuova attribuzione al Caravaggio. Se pensiamo al clamore, un po’ futile, suscitato dalla esposizione a Brera di una Giuditta che decapita Oloferne, attribuita con molti (giustificatissimi) dubbi al Caravaggio, che dire di alcune decine di Caravaggio che, in un solo colpo, compongono un inedito catalogo finora privo di opere non dico certe, ma anche solo ipotizzate come sue? Moro procede come un rabdomante. Cito alcune delle sue attribuzioni: il notevole Giovane coi baffetti (che si guadagna il posto di copertina del volume); un Gentiluomo col figliodella Ca’ Granda, un ritratto di Piero Durazzo, uno di Ludovico Casale e uno di Giovanni Antonio Berlendis; un ritratto di Gentiluomo, un’altro di Gentiluomo con la fronte spaziosa e quello di Cristoforo da Novate tutti della Carrara; un ritratto di Alessandro Alberti con un paggio della National Gallery di Washington (troppo manierista), un ritratto di Gentiluomo del Nationalmuseum di Stoccolma, un altro della National Gallery di Londra, un altro ancora dei Musei Civici di Padova; una Nobildonna di profilo dell’Ermitage e un’altra gentildonna di collezione privata; uno splendido Ritratto di bambina del Castello Sforzesco, un Giovane gentiluomo di Otterlo, un ritratto di Alessandro Farnese e uno di Gentiluomo vestito alla spagnola nella National Gallery di Dublino; un ritratto di Massimiliano II e uno di Filippo III, del Prado; un Gentiluomo con pelliccia e guanti del Metropolitan di New York, un altro del Nationalmuseum di Stoccolma; a cui si aggiungono vari disegni dell’Ambrosiana o del Castello Sforzesco (non quelli della bufala di due anni fa)...
Insomma, un corpus incredibile, con opere presenti in grandi musei, che raddoppierebbero d’emblée il catalogo caravaggesco. La prefazione firmata da Filippo Maria Ferro (studioso molto serio) ne sostiene la scommessa. Così Moro si chiede che cosa avrebbe potuto dipingere nei suoi anni giovanili Caravaggio: lungo gli anni Moro ha collezionato immagini di dipinti visti, tutti anonimi o attribuiti dubitativamente ad altri pittori, e ha cominciato a rilevarne le analogie stilistiche, il timbro espressivo, le somiglianze nella tecnica, nelle forme, nella qualità pittorica. Nel capitolo iniziale ribadisce l’importanza del milieu cremonese, forse più incisivo sulla formazione del giovane Michelangelo di quello bergamasco (il confronto con Moroni, però, nelle sue attribuzioni pesa parecchio); si domanda come mai un pittore che doveva essersi subito messo in luce per le doti straordinarie sia poi scomparso dalla memoria dei lombardi. Viene fuori, da questa nuova imponente galleria, un punto fermo degli inizi di Caravaggio: la ritrattistica. Il metodo di Moro è induttivo e pronto a valorizzare anche le dissonanze col Caravaggio che conosciamo («non dobbiamo infatti pensare di cercare necessariamente opere simili a quelle famose e ormai note»: giustissimo, dato che parliamo di un giovane che sta mettendo a punto la sua ricerca e il suo stile); cerca d’isolare il gene caravaggesco in opere che, gravitanti attorno ai modi di altri maestri, possono far pensare che il giovane pittore abbia lavorato presso o in rapporto a loro, venendo sfruttato nelle sue doti pittoriche. Da qui una rivelazione: «Man mano che le opere identificate aumentano di numero – confessa Moro – non credo ai miei occhi» (oppure ci crede troppo?).
I dubbi che possono venire seguendo le diverse attribuzioni sono questi. Ogni autografia viene proposta sulla base di analogie stilistiche, prendendo come confronto opere di altri maestri (i Campi, Sofonisba, Mor, Moroni, Figino...). Il metodo mira a comporre grappoli di opere anonime che potrebbero cadere sotto la medesima mano; privilegia l’originalità e la qualità pittorica, svolge confronti con opere già riconosciute a Caravaggio. Il fatto è che le pezze d’appoggio documentarie per ora sono molto labili e riscontri palmari non ce ne sono. A compromettere poi l’attendibilità delle intuizioni di Moro concorre la ribadita assegnazione a Caravaggio del Cavadenti (discutibilissimo: Zeri lo giudicava una patacca); oppure la “restituzione” a Caravaggio delle nature morte del Maestro di Hartford che, de visu, offre proprio la certezza contraria (qui sotto una disamina a partire dalla mostra di Roma). Il libro di Moro ha certo il merito di cercare una via possibile. Troppe attribuzioni, però, per un’unica proposta. E il modo di accertare l’autografia risulta spesso assertivo, quasi una divinazione da mero “sensitivo”.