Fin dalla sua travolgente vittoria a Sanremo nel 1958, con “Nel blu dipinto di blu”, Domenico Modugno è diventato un amico, un compagno, un amante, un riferimento per tutti gli italiani. Il “collega” Don Backy cura il volume (di cui anticipiamo ampi stralci del capitolo introduttivo), “Domenico Modugno. La rivoluzione del canto” (Clichy, pagine 96, euro 7,90), dedicato all’artista di Polignano a Mare in cui spiega perché sia stato anche il maestro di tutti i cantautori e gli autori successivi, e la rivoluzione che ha compiuto nella musica leggera, non solo italiana. In un articolo su “Epoca”, nel 1959, Enzo Biagi scrisse non a caso: «Modugno ha fatto, per la diffusione della nostra lingua, un’opera degna della Dante Alighieri: “Ciao, ciao bambina” è un’espressione largamente usata ovunque: e potete immaginare come questo efficace esperanto possa facilitare i rapporti tra i popoli». Domenico Modugno, a mio parere, è il vero padre dei cantautori italiani. Già prima dell’avvento dei vari Paoli, Endrigo ecc. Modugno proponeva – verso i primi anni Cinquanta, anche se in versioni dialettali – canzoni che riflettevano, attraverso metafore ben congegnate, aspetti della vita reale quotidiana, con titoli come Lu Pisci spada, La sveglietta, oppure – in seguito – descrivendo per immagini musicali il suo paese abbacinante di luce, con Sole, sole, sole, o la leggerezza usata nella descrizione della signorina chic attraverso il brano Musetto: «Vivi così / Tra boutique e caffè / Mangi rosbif / Bevi solo caffè, ma perché... / Non vestirti di rosso / Non chiamarti Gigì...».
Da quando esercito questa professione, ho sempre avuto il «faro Modugno» come punto di riferimento per le mie composizioni e so che il buon Domenico mi aveva in stima personale. Questo, ovviamente, mi riempiva – e tuttora mi riempie – d’orgoglio. Lo ritengo, infatti, il vero iniziatore di quella linea cantautorale che non faceva alcun riferimento ai più famosi cantautori francesi, da Vian, a Brel, a Mouloudji, a Brassens, ai quali – in qualche modo – s’ispirarono i vari Paoli, De André, ecc., che, in seguito, proposero canzoni di caratura forse più colta, ancorché meno solare. La cultura di Modugno è quella mediterranea del cantastorie istintivo. Nulla in lui è ponderato al fine di raggiungere uno scopo. Tutto quello che riesce a tirar fuori dalla sua chitarra gli basta per raccontare se stesso, le gioie, i dolori, le passioni del la sua gente del Sud.
Modugno non ha cantato soltanto con la voce. Fin dal Festival di Sanremo del 1958 cantò anche con il corpo. Era la prima volta che un cantante saliva su quel palcoscenico per cantare una canzone scritta da lui medesimo. Fino ad allora, gli autori assegnavano agli interpreti più popolari i loro brani. Modugno interruppe quella tradizione, suo malgrado. La canzone che aveva presentato, Nel blu dipinto di blu, non aveva incontrato il favore dei cantanti ai quali era stata proposta, che l’avevano scartata, non intuendo, scioccamente va da sé, la potenzialità insita in quel brano innovatore, legati com’erano ancora a schemi che, solo qualche anno prima, li avevano portati ad accettare di cantare canzoni dai titoli improponibili, quali La famiglia delle trote blu oppure Fragole e cappellini. Appena Modugno lanciò le braccia al cielo per cantare nuovamente il ritornello, la maggior parte di quelli seduti davanti al televisore al bar già aveva imparato la canzone: «Volare, oh, oh / Cantare, oh, oh, oh, oh / Nel blu, dipinto di blu / Felice di stare lassù... ». Ci fu l’impressione, come se ognuno si spiccicasse di dosso definitivamente i residui di paure, di povertà, di miserie, del decennio che andava concludendosi: «Poi d’improvviso venivo dal vento rapito / E incominciavo a volare, nel cielo infinito». «Volare, oh, oh», canta- rono tutti. Fu bellissima quell’emozione e a lui parve che tutti quanti ne avessero goduto e continuassero a goderne, perché appena di nuovo fuori dal bar, le facce seguitarono a essere sorridenti e il morale alto. La simpatia travolgente di quel baffo scanzonato, che – a differenza dei paludati cantanti, i quali, di volta in volta, si esibivano ancora ignari di quell’onda travolgente – contribuì quindi a che il pubblico d’Italia (e in seguito del mondo), si rendesse conto davvero e finalmente che gli orrori della guerra, gli odi, i rancori, erano definitivamente sepolti. Il fatto che quella canzone venne poi ribattezzata dal pubblico Volare fu un ulteriore segno che ormai non apparteneva più nemmeno al suo autore, ma all’anima di ciascuno di noi.
Il corpo, dunque, così come la sua aria da simpatico guascone sbruffone e irriverente, è stato il terzo strumento di Domenico Modugno – oltre alla chitarra e alle canzoni – occorso per interpretare se stesso. Modugno fa entrare la realtà quotidiana nelle canzoni, pur mantenendo una sua mediterraneità, soprattutto esprimendola con linee melodiche semplici, fatte di giri armonici tendenti a favorire l’apprendimento veloce del motivo, anche da parte di un pubblico meno acculturato dal punto di vista delle armonie. Ma, forse, la canzone che più di ogni altra mostra quanto sia facile (per chi sa) scrivere una canzone intelligente e – nel contempo – popolare, è L’uomo in frac o Vecchio frac. Un brano per eseguire il quale occorrono semplicemente tre accordi e che – nonostante questa semplicità armonica «da strada» – esprime nel testo una drammaticità che fino ad allora nessuno aveva osato trattare in una «canzonetta». Una canzone che non ha bisogno di un’orchestrazione particolare per esprimere l’anima, anzi. Ascoltare il brano eseguito da Modugno con la sola chitarra sarà sempre superiore a qualsiasi altra versione, anche orchestrata dal migliore arrangiatore. Personalmente, di questa magnifica canzone adoro un verso che lascia esterrefatti per la sua bellezza e semplicità: «La luna s’è incantata / Sorpresa, impallidita / Pian piano scolorandosi nel cielo sparirà », ed ecco che appare tutta la bellezza di un albeggiare primaverile, calmo, sereno, senza rumori. E tutta questa bellezza, per nascondere un dramma che tra poco si consumerà. Ed è per queste ragioni che Modugno può essere considerato, a tutti gli effetti, il padre dei cantautori italiani.