Il tema della crisi, una crisi personale, famigliare e sociale, si affaccia prepotentemente sugli schermi del Festival di Cannes, e lo fa con due grandi film in competizione, Dolor y gloria dello spagnolo Pedro Almodovar e Sorry We Missed You dell’inglese Ken Loach (nella foto Ansa)
Il tema della crisi, una crisi personale, famigliare e sociale, si affaccia prepotentemente sugli schermi del Festival di Cannes, e lo fa con due grandi film in competizione, Dolor y gloria dello spagnolo Pedro Almodovar e Sorry We Missed You dell’inglese Ken Loach.
Il primo, arrivato anche nelle nostre sale con Warner, è la storia di un regista, Salvador Mallo, impegnato a fare i conti con problemi fisici che lo tengono da anni lontano dal set, la depressione, fantasmi del passato e vecchi amori perduti, in uno struggente percorso di riconciliazione dove gli elementi autobiografici si alternano alla finzione. Almodovar firma i suoi 8 ½ e Amarcord, e affida il ruolo del protagonista ad Antonio Banderas, gli presta vestiti e capigliatura, ma si tiene a distanza di sicurezza dal suo alterego. Un viaggio nella memoria della sua infanzia, vissuta in povertà negli anni Sessanta, riaccenderà una scintilla in Salvador spingendolo a uscire dal suo stato di solitudine e isolamento e a ritrovare la voglia di raccontare emozioni e desideri. Lontanissimo ormai da eccessi e provocazioni che hanno caratterizzato il suo cinema negli anni Ottanta e Novanta, Almodovar firma un’opera sobria e intima, armoniosa e pacata, impregnata di crepuscolare serenità, eppure straordinariamente vitale, inaugurando probabilmente un nuovo corso della sua carriera. Assai toccante a questo proposito la scena dove Salvador chiede scusa a sua madre (interpretata da Penelope Cruz in giovinezza e da Julieta Serrano in vecchiaia) per non essere stato il figlio che lei avrebbe voluto.
«Le mie storie sono cambiate con il tempo – ha raccontato Almodovar - perché intorno a me è cambiato il mondo e sono cambiate pure le mie esigenze. Oggi faccio film meno pop e provocatori, più sobri e malinconici, ed è sorprendente come il pubblico abbia accettato con entusiasmo il nuovo corso del mio cinema che sceglie di spogliarsi di una serie di orpelli per privilegiare l’approfondimento, una cosa che mi interessa sempre di più». «Gran parte della cupezza, della solitudine e dell’isolamento del protagonista – continua il Almodovar - è dovuta anche alla situazione politica della Spagna fino a pochissimo giorni fa. Da una settimana a questa parte il paese è cambiato in una direzione che io appoggio. Sta cominciando una nuova e più felice epoca e quindi il mio prossimo film non potrà che essere più allegro».
«Pedro ha trovato il coraggio di realizzare – dice invece Antonio Banderas - tutto quello che non pensavo sarebbe mai riuscito a fare, un film nel quale si confronta con il suo passato. È come se si fosse liberato di un grande peso, e penso che sia stato molto generoso nel condividere la propria intimità e nel mettersi a nudo. Quando dovevo recitare il dialogo con la madre non riuscivo a dire le battute con Pedro lì davanti perché so quanto gli è costato scrivere parole così amare. Quando dopo anni ci siamo ritrovati sul set de La pelle che abito sono arrivato con tutto il mio bagaglio di esperienze hollywoodiane e lui mi ha detto che della mia sicurezza non sapeva che farsene. Ci siamo scontrati per tutto il film, ma poi ho capito cosa stava facendo e sono rimasto a bocca aperta perché ha mostrato cose di me che io non sapevo neppure di avere. Ho costruito il personaggio di Salvador un pezzo alla volta, giorno dopo giorno, senza però imitare Pedro». E a proposito della sua carriera hollywoodiana aggiunge: «Ventisei anni fa è cominciata una grande avventura, ma le cose sono molto cambiate da allora: oggi mi offrono solo ruoli da criminale, mentre una volta ero Zorro e il Gatto con gli Stivali e i cattivi erano biondi e parlavano inglese. Allora meglio i film europei, più complessi e non per tutti».
I cambiamenti nel mondo del lavoro e le sue drammatiche ripercussioni sulla famiglia e i rapporti personali sono invece al centro del film di Loach (distribuito la Lucky Red), storia di un uomo, Ricky, che per guadagnarsi da vivere dopo un licenziamento lavora a Newcastle come fattorino, teoricamente in proprio, di fatto per un franchise che sfrutta gli impiegati interinali come schiavi. Il regista racconta con la consueta passione e indignazione il progressivo depauperamento della vita individuale e famigliare, dominate dalla tecnologia, private del tempo necessario da dedicare allo svago, ai figli, al riposo dopo giornate di lavoro massacranti.
Di umanità, dunque. Una situazione che riguarda chi vive di lavoro precario, schiacciato da pressioni fortissime e non più difeso da quei diritti sociali faticosamente conquistati negli ultimi decenni. Ricky non può fermarsi, a costo di morire di lavoro, eppure, nonostante la tragedia sia sempre dietro l’angolo, la famiglia rimane unita perché è tutto quello che resta per sopravvivere. «Il paradosso – sottolinea l’83enne regista – è che i lavoratori sono costretti a sfruttare se stessi subendo condizioni di lavoro disumane. Non possono andare in ferie e se si ammalano ne pagano le conseguenze. Ma sperare non serve, dobbiamo riconoscere che questa situazione è intollerabile oltre che pericolosa perché le persone vittime di disuguaglianze indirizzano la propria rabbia contro gli immigrati e i più deboli, alimentando l’ascesa delle destre. La famiglia diventa allora il luogo dove i conflitti esplodono, mentre i giovani, confusi e smarriti, consapevoli di essere stati ingannati, si uniscono per protestare contro la distruzione del pianeta, oppure restano schiacciati dalla cultura basata su possesso, avidità e paura». «Quando ero giovane io – continua il regista – se trovavi un impiego te lo tenevi per tutta la vita, oggi invece il lavoro non garantisce neppure di poter mantenere una famiglia. I banchi alimentari in Gran Bretagna sono pieni di piccoli lavoratori che non riescono ad arrivare alla fine del mese e la situazione peggiora di anno in anno. Secondo le Nazioni Unite, la povertà nel mio paese è una vera e propria disgrazia, ed è una scelta politica».