«In panchina ci stavo di molto bene e se mi ci rimettono mi fanno solo un piacere. Ma purtroppo non mi ha chiamato proprio nessuno... Così, per non perdere il contatto con la panchina, vado a sedermi in quella che ho in giardino e alleno mio nipote Riccardo che ha 5 anni e fisicamente è una “belva”, come il nonno...». Il nonno è Nedo Sonetti. Un pezzo di storia importante del nostro calcio, il Nedo da Piombino che ieri ha compiuto 70 anni. Da 26 anni vive a Bergamo, una delle città in cui ha allenato e vinto con l’Atalanta, consolidando poi con Udinese, Lecce, Ascoli e Brescia, la sua fama di specialista in promozioni dalla B alla Serie A.
Ma come è cominciata questa sua lunga storia d’amore con la panchina?«Quando giocavo, stopper alla Reggina, in C, allenavo già la mente a fare l’allenatore. A 40 anni però, benché avessi già vinto quattro campionati ero ancora nel mezzo della gavetta. Oggi invece basta che una stagione fai benino che ti spacciano per un fenomeno».
Neppure Mourinho che ha vinto tutto è un fenomeno?«Ci sono solo due categorie di tecnici: i bravi e i meno bravi. Ma non prendiamoci in giro: i grandi allenatori li fanno solo i grandi giocatori che ha a disposizione. Con tutto il rispetto per Mourinho, ma con la sua Inter, eppure questa di Leonardo, vinceva tutto anche Sonetti».
Qualcuno potrebbe pensare: parla così perchè le “grandi” a lei non l’hanno mai cercata?«E si sbagliano di grosso. L’Inter di Pellegrini mi cercò nell’87 e anche Berlusconi quando stavo andando a mille con l’Atalanta (9° posto) mi volle parlare per capire se potevo andare al Milan. Quei treni grossi sono passati senza fermarsi, ma io anche allenando in provincia non mi sono mai sentito un tecnico di secondo piano. Ho continuato a togliermi parecchie soddisfazioni e penso di aver insegnato il mestiere a più di uno».
Chi sono gli allievi dell’accademia sonettiana?«Ho allenato due ct, Donadoni e Prandelli, ma forse quelli a cui ho impresso il mio marchio sono Cagni e Zenga. Quando li avevo alla Sambenedettese un giorno mi chiesero gli appunti dei miei programmi d’allenamento. Gli risposi che copiare quattro paginette non serve a niente perché ciò che conta non è quello che fai, ma il “come” lo fai»
Quindi è quel “come” che rende Mourinho più speciale di tutti?«Non c’è niente di speciale, Mourinho è il più italiano degli allenatori italiani. Da sempre gioca come noi, contropiede, golletto e poi tutti a difendere il risultato. Eto’o con lui faceva tutto tranne che il centravanti o ci vedo poco?».
Ci vede bene: Eto’o con Benitez faceva il centravanti e segnava tanto, eppure lo spagnolo è stato costretto a fuggire dall’Inter.«L’hanno trattato come un cretino a cominciare dai giocatori, ma Benitez ha vinto in Spagna e Inghilterra e meritava il giusto rispetto. Da parte mia ce l’ha tutto. Il problema è che qui da noi pensano che un allenatore sia un inventore e invece ormai si inventa più poco anche in campo».
Qualche novità che Sonetti ha portato nel calcio italiano?«Nel ’78 andai in Inghilterra e tornai con una folgorazione, avevo visto la tattica dell’attacco al portiere da parte delle punte. Fui il primo a sperimentarla alla Sambenedettese, oggi lo fanno tutti».
Che rapporto ha avuto con i presidenti?«Splendidi. Con Zoboletti alla Sambenedettese e Bortolotti all’Atalanta sono stati dei rapporti speciali. Così come con lo straordinario Costantino Rozzi. Poi ho avuto tutti i “matti”, da Cellino a Zamparini, passando per Pozzo e Corioni. Mi sono fatto mancare solo Gaucci».
Qual è stato lo svantaggio maggiore dell’allenare in provincia?«Subire la sudditanza psicologica degli arbitri. Se Cagni faceva un fallo non era la stessa cosa di quando Baresi buttava giù in area un attaccante della Sambenedettese. La sudditanza è una brutta malattia che nel calcio italiano è sempre esistita e non credo che ne guarirà mai».
Da difensore del calcio all’italiana cosa pensa dei tanti stranieri che sono arrivati negli ultimi anni?«Mi impressionano i 13-14 stranieri di provinciali come il Catania, perfino l’Inter sta ripiegando sugli italiani, Pazzini, Ranocchia e l’oriundo Thiago Motta... Sono troppi questi stranieri e spesso per qualità non sono affatto superiori ai ragazzi dei nostri vivai che così non hanno l’opportunità di emergere. E poi paghiamo dazio con le nazionali: fuori subito ai Mondiali, dagli Europei Under 21 e dalle Olimpiadi, tanto per gradire. Una squadra ideale è quella con metà stranieri buoni e l’altra metà italiani, senza i quali non si crea lo spirito di attaccamento alla maglia e alla città».
Se non avesse fatto il mister che professione avrebbe intrapreso?«Tornassi indietro studierei medicina come mio cognato che mi ha trasmesso la passione per la chirurgia. In ogni città in cui ho allenato ho cercato di entrare in contatto con i primari. Io li invitavo allo stadio e poi ricambiavo la visita in sala operatoria».
Da chirurgo ad honorem quali sono allora i mali che affliggono il calcio?«Ai vertici si sono moltiplicati gli incompetenti che fanno pure la voce grossa... La televisione è sempre in fuorigioco, queste telecamere che vanno alla ricerca degli ignudi negli spogliatoi, con questi giocatori che li vedono e restano imbalsamati come dei fagiani, mi fa pensare che è bene darsi una ridimensionata. Ma purtroppo il calcio ormai è solo televisivo».
La sua è una sfida ai media?«Mai fatto silenzio stampa in vita mia e ho sempre tenuto rapporti civili e intelligenti, con quella stampa che si comportava alla stessa maniera. In caso contrario con me non c’era da scherzare...».
Scherza con i fanti ma non con i santi...«Sono credente, ma non ho mai disturbato Dio per una partita. Quelli che si fanno il segno della croce davanti a 80mila spettatori sapendo che poi li vedranno milioni davanti alla tv li ho trovati sempre un po’ patetici. Mai bestemmiato in campo e per quelli che lo fanno la squalifica è troppo poco, io saprei bene come punirli...».
Settanta primavere, ma cosa le piacerebbe fare la prossima?«Il direttore tecnico. Magari un allenatore di 40 anni ha bisogno di un uomo come me di “41” che può mettergli a disposizione la sua lunga esperienza. Andrei anche in C? Ci sono delle eccezioni come il Verona che azzerano anche il fattore categoria. Comunque, se mi danno un’opportunità sono ancora carico e pronto per fare e disfare».
Che idea si è fatto della sua vita stando seduto su una panchina?«Che devo dire grazie al calcio ogni giorno, perché mi ha dato tanto e tolto molto poco. Mi ha arricchito economicamente, ma soprattutto come uomo, permettendomi di confrontarmi con tanta gente e di scoprire che avevo una personalità tosta che mi è servita a difendermi. Soprattutto fuori dal campo dove la vita è molto più dura».