La prima alla Scala di Milano del “Boris Godunov” , opera di Modest Musorgskij - Amisano e Breasciaj
La violenza ha gli occhi di ghiaccio di Grigorij. La violenza cieca di una storia che si ripete, inesorabile. E sembra non aver insegnato nulla. Occhi senza pietà, come quelli di chi dichiara guerra ad un popolo un tempo fratello o di chi alla violenza risponde con la violenza. Silenzio. Boris è morto, ucciso da una congiura di palazzo messa in atto dal Principe Sujskij con il falso Dmitrij – e non come nel libretto, ispirato ad un dramma di Aleksandr Puskin, dal senso di colpa e dal peso del rimorso. All’usurpatore basta (e ci basta per precipitare nell’abisso del male) uno sguardo. Che si posa sui figli di Boris, su Feodor e Ksenija. Soli, su un letto sfatto e impregnato di incubi, abbracciati per farsi forza dopo che hanno visto morire il padre. Uno sguardo ed è subito chiaro che gli occhi di ghiaccio di Grigorij, saranno gli ultimi occhi che i due ragazzi vedranno. Che quello sarà il loro ultimo abbraccio. Perché per loro, poi, ci sarà la morte. Come c’è stata tempo prima per lo zarevic Dmitrij, fatto uccidere da Boris per prendere il potere. Quel potere che ora Grigorij (che si è spacciato per il defunto erede al trono, costruendo abilmente quella che oggi definiremmo una fake news) vuole e ottiene.
Perché la storia si ripete, inesorabile. Immagine carica di pessimismo, certo in sintonia con i tempi che viviamo e che potrebbero non lasciare spazio alla speranza, che il regista danese Kasper Holten sceglie come ultima (discutibile, certo) parola del Boris Godunov di Modest Musorgskij che ieri, salutato da tredici minuti di applausi e lanci di fiori dal loggione, ha inaugurato la nuova stagione del Teatro alla Scala di Milano con la bacchetta di Riccardo Chailly (che fa un Boris cupo, sinistro, attraversato da inquietudini che arrivano dritte allo stomaco, ma nel quale si aprono anche inattesi squarci di poesia) e Ildar Abdrazakov, toccante e intenso nei panni del protagonista, lo zar sul trono dal 1598 al 1605, in uno dei periodi più bui della storia della Russia, fatto di congiure, intrighi, uccisioni, rivolte di popolo. Ascesa e caduta di un tiranno e di un uomo, la storia raccontata in musica da Musorgskij nel Boris che Chailly propone nella prima versione, quella del 1869, e nell’orchestrazione originale del compositore russo. Inaugurazione con un’opera russa, cantata in russo (così uno sguardo va al palco e uno ai videolibretto per capire il senso della storia).
Opera che qualcuno, non ultimo il console ucraino a Milano Andrii Kartysh, aveva chiesto di cancellare «per non dare voce alla propaganda di Vladimir Putin». Richiesta respinta al mittente. Scelta coraggiosa (politicamente e musicalmente) che ha trovato una sua forza dirompente sul palco, grazie alla lettura di Chailly e di Holten, asciutta come un reportage di cronaca che mette in fila i fatti e lascia il giudizio a chi osserva. Cupa, come i tempi che stiamo vivendo. Perché quella di quest’anno è un’inaugurazione in tempo di guerra, in tempo di crisi economica. Inaugurazione profetica – perché l’arte è sempre profetica, capace di parlare del futuro attraverso storie del passato – pensata tre anni fa quando il conflitto tra Mosca e Kiev non era ancora scoppiato. Inaugurazione politica nel denunciare le derive della tirannia, ieri come oggi – i costumi di Ida Marie Ellekilde sono un mix di epoche quella della storia a cavallo tra Cinque e Seicento, quella della composizione dell’opera, metà Ottocento, e la nostra. Politica nel raccontare le sofferenze di un popolo che chiede «Pane!» e piange i propri figli, morti perché quel pane non c’è – quel grano, potremmo dire oggi, non c’è. Perché ancora una volta la Prima della Scala diventa uno specchio del nostro tempo, specchio nel quale guardarci per provare a capire qualcosa di noi.
Alle prese con la guerra, con la crisi economica. E con il virus. Perché quella di quest’anno è (ancora) un’inaugurazione in tempo di pandemia. Ma dopo l’obbligo di ffp2 per il Macbeth verdiano dello scorso anno, ieri niente (o quasi) mascherine sui volti dei duemila spettatori, liberi di cantare l’Inno di Mameli che dal podio Chailly attacca dopo i cinque minuti dell’applauso carico di affetto e riconoscenza (usanza che ormai fa parte del Sant’Ambrogio scaligero, anche quest’anno immortalata da centinaia di telefonini e subito postata sui social) per il Capo dello Stato Sergio Mattarella, in palco reale insieme alla premier Giorgia Meloni e alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Per lei le note dell’Inno alla gioia di Beethoven, l’inno europeo che auspica la fratellanza tra i popoli. Fuori le proteste dei sindacati sulla manovra, dei lavoratori dello spettacolo per i tagli alla cultura, degli ambienta-listi che in mattinata avevano imbrattato di vernice l’ingresso del teatro. Dentro, sul palco, un altro popolo, quello russo. Che, però, sa raccontarci di noi. Buio. Il pianto del clarinetto, gli accordi dei contrabbassi disegnano l’atmosfera cupa del dramma. Il popolo è disorientato. Ha bisogno di una nuova guida politica. Suonano le campane nella scena all’incoronazione di Boris (il coro di Alberto Malazzi e le voci bianche di Bruno Casoni messe ai lati della scena evocano il carattere quasi oratoriale della partitura), ma non c’è nulla di trionfale.
Lo zar ha appena ammesso che «la mia anima è triste» perché sente il peso del suo delitto. E il fantasma dello zarevic Dmitrij gli appare davanti. Un ragazzino coperto di sangue che non lo mollerà più. Ossessione che torna per tutto lo spettacolo di Holten, tutto in proscenio, per tirare lo spettatore dentro la vicenda. Un racconto corale, un frammento di storia abitato da una umanità a cui fanno corpo Lilly Jorstad (Fedor), Anna Denisova (Ksenia), Norbert Erns (Principe Sujskij), Ain Anger (Pimen), Stanislav Trofimov (Vaarlam), Alexander Kravets (Misail), Yaroslav Abaimov (l’Innocente), Maria Barakova (l’Ostessa). Una lunga riflessione, quella di Chailly e Holten, sul senso della storia e sul valore della memoria, portata in un non luogo, uno spazio della mente (sembra di essere dentro un mappamondo) tra cartine geografiche e grandi fogli di pergamena (le scene, nelle quali si aprono porte d’oro e sulle quali prendono forma le stanze del Cremlino, sono di Es Devlin) sui quali il monaco Pimen scrive la sua cronaca su Boris e sulla Russia. Fogli che Boris strappa per provare a interrompere il corso della storia, per cancellare la sua colpa. Impresa impossibile, dice Holten che racconta con un taglio cinematografico l’opera, montando le sette scene in dissolvenza. E dopo una prima parte più narrativa dove con la scrittura di Pimen che invade il palco (l’icona dell’omicidio dello zarevic si anima di esplosioni e si colora di sangue) siamo dentro la cronaca, nella seconda parte ci porta nella mente allucinata dello zar. La scena di San Basilio, con il popolo che depone ai piedi di Boris i propri figli morti per la fame e la guerra e l’Innocente che butta in faccia allo zar la sua colpa, è un incubo dello zar. Un brusco risveglio e siamo al Cremlino. Dove la parabola di Boris di compie. E quando la musica di Musorgskij apre uno squarcio di silenzio sull’infinito, Chailly (che concerta magnificamente la partitura in un crescendo di tensione dove la violenza del suono si stempera alla dolcezza nella preghiera di Boris) sembra intravedere uno spiraglio di redenzione in quel «Perdonatemi» che Boris sussurra, ultima parola della sua parabola di tiranno. «Perdon…» che resta a mezz’aria. Boris è morto. Riverso a terra. Tra i fantasmi che gli hanno offuscato la mente. Fantasmi di morte che hanno, però, la concretezza di corpi coperti di sangue. Il fantasma dello zarevic Dmitrij. I fantasmi (del futuro) dei suoi figli, Fedor e Ksenija, anche loro coperti di sangue. Perché li attende la morte. Basta uno sguardo, lo sguardo di Grigorij. Che ha gli occhi di ghiaccio dei tanti (troppi) tiranni di oggi.