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Cinquant’anni fa esatti, 1970, fu come se l’Italia fosse percorsa da una nuova vibrazione per un amore già solido, conosciuto, quello per il calcio. Un epicentro certo, quello dei Mondiali messicani, emozioni forti e grandi campioni. E attorno novità dettate dai tempi che cambiavano, nella società, nei media. Stadi pieni anche nei campionati minori, la Rai che lancia con il nuovo campionato il racconto in tempi brevi delle partite: Novantesimo Minuto (che ha appena tagliato le 50 primavere, prima puntata 27 settembre 1970), per andare a saldare un filo che dalla radiolina pomeridiana alla Domenica Sportiva consentirà di accompagnare per tutto il giorno festivo l’innamorato del pallone. Anche l’intrattenimento, il cinema popolare coglie questo fermento, ci entra a piene mani, e non poteva essere che l’attore più in simbiosi col suo Paese, Alberto Sordi (di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita), a cogliere l’attimo in tempo praticamente reale. Nel maggio di quell’anno, termina il soggetto di un nuovo film scritto con Adriano Zecca e Sergio Amidei e ne affida la regia a Luigi Filippo D’Amico. Dopo il vedovo, il vigile, il marito, il medico della mutua, Albertone è il Presidente, che nell’Italia del ’70 non è quello della Repubblica o di un’azienda, ma quello di una squadra di calcio. Nasce il Borgorosso Football Club, sodalizio che ancora oggi, dopo mezzo secolo, è nell’immaginario dei tifosi di più generazioni con le sue maglie simil- Juventus a strisce bianconere, con il suo inno intonato dal vocione baritonale di Sordi («bianconeri del Borgorosso – rosso – rosso, Borgorosso Football Club!», ovviamente coniato con l’immancabile maestro Piero Piccioni), con il suo sapore di Romagna verace,con le sue vicende che grazie alla verve dell’istrionico attore romano hanno fermato e persino anticipato le varie controindicazioni di una passione che cominciava, anche in una realtà piccola come quella tratteggiata dal film, a inquinarsi per gli eccessi di ambizione, protagonismo, ambiguità. E di soldi. Alberto Sordi, alias Benito Fornaciari, è un mix di storie di presidenti poi ben conosciuti nelle categorie che contano negli anni a venire. L’attore raccontò di essere stato ispirato, nella costruzione del suo personaggio, dalla figura di Ernesto Brivio, al vertice della Lazio nel biennio 1962/63, passionale, capopopolo, senza rete, finito male alla svelta, ma nelle pieghe del personaggio padrone del Borgorosso troviamo poi anche i ras del calcio provinciale e «faccio-tutto-io» come Rozzi o Anconetani, o i tanti presidenti anche di club titolati che si sono legati al calcio per spiccare nella fiera delle vanità, o venire idolatrati – sempre per vanità, o peggio per interesse – dal popolone dei tifosi, la cui maggioranza, oggi come ieri, chiude gli occhi di fronte a quasi tutto in cambio della giornata o della stagione di gioia. Ma un pensiero nella parabola del presidente Benito – che in pochi mesi passa da volere speculare sulla società ad acquistare la “guest star” Omar Sivori, a distruggere il suo patrimonio personale può andare anche a uno come Franco Sensi, che si è rovinato per vedere vincere la a Roma cara proprio ad Albertone. Cinquant’anni dopo, non è facile trovare un Borgorosso nel nostro calcio, soprattutto nelle categorie – la Serie D, la Promozione – in cui era stata costruita la storia. Prova amara ne sia che la società, la squadra che era servita a Sordi e alla produzione del film come perno “operativo” per la realizzazione, il Baracca Lugo, non esiste più. Le maglie bianconere offerte per le riprese, con giusto la sostituzione dello stemma (via il Cavallino di Baracca, sopra l’Ariete del Borgorosso); lo stadiolo della cittadina; soprattutto i giocatori prestati per le scene di partita e di spogliatoio. Tra essi, due che saranno famosi: Valerio Spadoni, talento grande e sfortunatissimo affermatosi e spentosi alla Roma, tornato poi nella sua terra, a commerciare in fumetti. E poi OC riano Testa, portiere, a Bologna quel tanto che basta a farsi fotografare con Pelè, suo avversario col Santos in una tournée americana. Il Baracca ha chiuso nel 2015, dopo una gloriosa storia locale che lo ha portato fino alla Serie C, negli anni belli, e quando le pressanti logiche economiche del calcio del nuovo millennio lo hanno trascinato giù e portato a sospendere l’attività, anche con le squadre giovanili. Non è arrivato nessun Fornaciari, a salvarlo, a far sognare ancora un po’, a mantenere viva una passione, un piccolo grande pezzetto di cultura e storia locale. Il film uscì a ottobre, a campionato appena iniziato: e nella febbre da pallone post-messicana, non potevano esserci dubbi sul suo successo al botteghino. Fu più maltrattato dalla critica “impegnata”, che ovviamente non mancò di sottolineare l’Alberto Sordi sempre pronto nel raccontare la pancia del Paese piuttosto che il suo impegno: e l’anno dopo, però, con Detenuto in attesa di giudizio, molte penne dovettero rimanere inutilizzate. Invece, visto e rivisto, il Borgorosso è un altro centro pieno, perfettamente a fuoco sul pallone e su certe sue derive degli anni a venire, anche se raccontate col sorriso. Sordi è sempre stato un tifoso d’acqua dolce, a distanza di sicurezza, attento a non farsi coinvolgere troppo, mai avrebbe potuto essere nella realtà il “ricco scemo” a capo di una società di calcio in nome dell’irrazionale amore per uno sport, dei colori, una città. Giusto presentando il film in una sorta di mega-spot alla Domenica Sportiva del 18 ottobre 1970, gli scappò un «Daje Roma!» congedandosi e abbracciando gli interisti Mazzola e Facchetti, ospiti di lusso della puntata e omaggiati con un gagliardetto del “Football Club”. Che a Roma, esiste veramente, fondato nel 2006 da un gruppo di fedelissimi sordiani: categorie amatoriali, è solo omaggio, passionaccia, divertimento. Proprio come quello che ti può regalare un bel film su un calcio che non c’è più.