martedì 25 agosto 2015
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Vincente, serio, campione assoluto, leggenda... potremmo definire Usain Bolt in mille modi, ma quel che conta per l’immagine dell’atletica è che il giamaicano ne sia il volto pulito. Gode ed esulta anche la federazione mondiale orgogliosa di mettere l’oro al collo, nella gara più importante della rassegna iridata di Pechino, a un atleta dalla fedina penale nitida in materia di doping. La reputazione è salva e il nuovo corso programmato dal neo presidente della Iaaf, Sebastian Coe, che diventerà operativo da settembre, è iniziato con l’uomo giusto e con la medaglia giusta. Sir Coe ha, come proposito principale, la volontà assoluta di ripulire l’atletica dai fantasmi del doping e di certo non sarebbe stato facile presentare quale uomo più veloce un ex dopato come Gatlin.  Se avesse potuto la Iaaf avrebbe fatto carte false per questo risultato. Bolt era e rimane la star assoluta, è l’uomo immagine perfetto, lo show-man che piace anche ai bambini, abbagliati dal suo giocare con le telecamere. Ma è anche l’atleta amato dai tecnici, quelli con il palato sopraffino che rimangono sempre stupiti per il suo stile di corsa perfetto dal primo all’ultimo metro. Sarebbe stato ben diverso se sul gradino più alto del podio ci fosse salito Justin Gatlin, lo “sbruffone” statunitense dal passato tormentato da sospensioni e squalifiche, pizzicato più volte con sostanze tutt’altro che lecite in corpo.  Domenica in pista Gatlin rappresentava il “demonio”: troppo muscoloso ed esplosivo nel body rosso della nazionale Usa; fischiato dai cinesi e mal voluto da tanti nel circo mondiale dell’atletica. Ha dominato le ultime due stagioni: 29 gare e altrettanti successi, l’ultima sconfitta risaliva a settembre 2013, per opera proprio di sua maestà Bolt. Ma Usain ha colpito nell’unica gara che contava, nel testa a testa spesso evitato in questi 24 mesi, e si è ripreso lo scettro confermando l’oro mondiale già vinto a Berlino 2009 e Mosca 2013. In mezzo c’era stato Daegu, nel 2011, con quel fatale errore dai blocchi che ne impedì la volata finale sui 100 metri: la sua squalifica diede il via libera al figlioccio giamaicano Yohan Blake.  A Pechino sembrava tutto già scritto: era pronto il funerale agonistico di Bolt, negli ultimi mesi dichiarato finito. Gatlin in pista a vincere e Usain a Monaco di Baviera nello studio medico a farsi curare, accartocciato, con quelle gambe che non riuscivano più a ritrovare la perfezione. Invece, il primatista mondiale si è gestito con l’esperienza nelle gare di qualifica e in semifinale, senza strafare. Minimo sindacale, giusto per passare il turno con le energie centellinate. Al contrario Gatlin ha spinto forte, motori sempre al massimo, forse un modo per autoconvincersi che il migliore era lui, che nulla avrebbe potuto scalfire la sua nuova corazza di vincente.  Ha vinto Usain oppure ha perso Justin? Lo si capirà meglio tra due giorni, perché il duello continua. Oggi i due sfidanti saranno già in pista per le batterie dei 200, domani la semifinale e giovedì la finale. Nella specialità non si scontrano dal 2005, Bolt era un ragazzo acerbo dal destino segnato, ora ci sono tre volate per mezzo giro di pista, energie da amministrare e concentrazione da mantenere. Usain è un maestro nel gestire la tensione, il migliore anche in questo, una sicurezza dentro di sé che non trova uguali.  A Pechino nel 2008 iniziò la sua leggenda, all’epoca era esplosivo e fresco, ora è un campione completo che ha imparato a gestire anche gli infortuni. Il re era ed è rimasto lui, in pista e fuori. Resta il mito che piace e che serve all’atletica e al suo rilancio. Non ci sono altre star in vista, qualche giovane all’orizzonte ha buone qualità fisiche ma non il suo carisma e la sua carica. Qualche veterano come Mo Farah vince ma vivacchia sempre nell’ombra e nei dubbi del doping alla scuola del discusso Alberto Salazar. Si poteva puntare sul francese campione nell’asta Renauld Lavillenie, ma incredibilmente ieri ha perso la finale. Non è un cannibale di medaglie.  Nei 200 metri Usain quest’anno ha corso solo un pessimo 20”29 contro il fantastico 19”57 segnato da Gatlin, ma c’è da giurare che in questi tre giorni il più sereno sarà Bolt. Il giamaicano non ha più nulla da perdere, il titolo di uomo più veloce del mondo è già suo, i tifosi sono e saranno comunque dalla sua parte e i 200 metri sono da sempre la sua gara preferita. Gatlin al contrario vive nell’angoscia d’essere etichettato come perdente, di partire da Pechino senza allori e non ha più sicurezze. Bolt gli fa paura e la tensione può tagliare le gambe e giocare brutti scherzi. È vero ci sarà a fine settimana anche la staffetta 4x100, ma quella sarà una sfida Usa contro Giamaica, vince o perde la squadra, l’atletica è individualità, gli sprint sono personalità. Vince il più forte, anche nella testa.  Da ora in poi ci saranno diritti televisivi da vendere, sponsor da convincere più facilmente, ragazzi ai quali regalare sogni e soprattutto certezze che questa disciplina può essere pulita e trasparente. L’anno olimpico è alle porte e l’atletica dopo 16 anni di troppo conservatorismo dell’imbalsamato presidente Lamine Diack deve ritrovare smalto e lucentezza. Bolt è pronto alla sfida forse più importante della sua carriera, far trionfare l’atletica e farla tornare la Regina dei Giochi, ma è una gara che non può vincere da solo: «Capisco che diciate che il mio successo ha un significato importante, ho vinto pulito ma l’ho fatto per me stesso, da solo non posso salvare niente». Insieme a lui ora c’è un mito come Sebastian Coe, l’abbinamento farà faville. Poster, campagne televisive, pubblicità, gare-esibizione. Un centesimo di secondo vale il rilancio dell’atletica.
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