(Disegno di Doriano Solinas)
Gilberto Corbellini, professore ordinario di storia della medicina e insegna bioetica alla Sapienza Università di Roma; Massimo Reichlin, professore ordinario di filosofia morale presso la facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele. Entrambi siete autori di due recentissimi libri sulla bioetica ampi, ambiziosi e profilati in modo chiaro. Possiamo avviare questo colloquio dal concetto stesso di bioetica che ciascuno di voi propone.
Gilberto Corbellini. L’idea che ho di bioetica l’ho maturata insegnando per 20 anni in facoltà di medicina, venendo però da una formazione filosofica con una specializzazione in storia della medicina. Il problema cui mi sono trovato spesso di fronte è che esiste una dissonanza tra gli strumenti messi a disposizione dalla filosofia e i nuovi dilemmi che le scienze biomediche sollevano. Ecco quindi che la mia scelta è stata di provare a ripensare la natura del senso morale umano, attraverso i risultati della ricerca empirica attuale sulle basi della moralità, per vedere come a partire da elementi psicologici comuni a tutta la specie le teorie etiche si vadano costruendo in risposta a istanze ecologiche (in senso lato). Il mio approccio alla bioetica usa gli elementi fondamentali – i sentimenti morali e le risposte emotive – che entrano in gioco nelle scelte di fronte ai dilemmi. È poi importante la contestualizzazione storica: non si capisce la dinamica dei giudizi, se non si osserva come in contesti diversi si affrontano situazioni analoghe.
Massimo Reichlin. Io penso che la bioetica sia un fenomeno intrinsecamente plurale: vi sono diversi livelli ai quali studiare bioetica. Il primo è il livello teorico, primariamente filosofico, ma in realtà profondamente interdisciplinare, in cui entrano psicologia, conoscenze scientifiche ed elementi normativi. Il secondo livello ha a che vedere con il modo in cui le idee, i concetti, le riflessioni circa i dilemmi incidono sulle professionalità e sulle scelte sanitarie. Il terzo livello è di carattere pubblico, riguarda la discussione non accademica, più ampia, che si svolge nella società e si pone il problema di come le diverse posizioni possano tradursi in politiche sociali e leggi sulle pratiche biomediche, orientate da temi e valori giudicati rilevanti.
Semplificando molto, in un libro la bioetica risolve falsi problemi e scioglie crampi mentali, in una visione naturalizzata; nell’altro, vi è invece l’apporto forte di un’antropologia che si radica nella tradizione teologica e filosofica, con nuove declinazioni…
Corbellini. L’idea di base è che in genere non siamo intuitivamente capaci di rappresentarci moralmente alcuni scenari introdotti dalla biomedicina contemporanea, per esempio alcuni modi di morire che non erano nemmeno contemplati fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. Per questi nuovi dilemmi mancano gli strumenti cognitivi ed emotivi, dato che non c’erano le condizioni perché venissero selezionati. A mio avviso, le teorie e le dottrine filosofiche tradizionali spesso non risultano adeguate nel dare risposte a tali situazioni inedite. Bisogna cambiare prospettiva, compreso un nuovo concetto di vita umana dato dalla biologia contemporanea. Bisogna districare alcuni nodi per capire che tra tutte le risposte possibili quelle che scaturiscono dal pensiero liberale sono meglio di altre: le persone devono essere lasciare libere di decidere quello che ritengano per loro sia meglio, compatibilmente con il fatto che abbiano informazioni tali per cui non si autoingannino e non si facciano ingannare. E non deve essere consentito fare agli altri ciò che essi non vogliono. Tutto il resto diventa un’interferenza, che quando è imposizione causa più danni di quanti ne produca il lasciare le persone libere.
Reichlin. Il testo di Chiodi e mio ha una peculiarità che è un’originalità tra le pubblicazione italiane sulla bioetica. Affianca infatti la prospettiva filosofica a quella teologica. Il nostro tipo di approccio è più profondamente radicato in una concezione “classica”, cioè l’idea che le tradizioni filosofiche e religiose abbiano un ruolo importante da svolgere anche circa i dilemmi contemporanei (che esse non si erano poste). Il motivo è che esiste una dimensione di riflessione sui nuovi scenari che non può non muovere da quei sistemi che hanno plasmato il nostro intero modo di pensare. Partire da zero è un’impresa difficile, le nostre stesse parole sono un portato delle tradizioni filosofiche e teologiche. La sfida è quella di instaurare un circolo virtuoso tra le tradizioni e le novità. Nell’ambito della riflessione teologica, che si è occupata molto e forse persino troppo di tali questioni, non si deve svolgere una deduzione da principi noti, ma le stesse tradizioni devono uscire in parte trasformate dalle nuove domande. La storia della bioetica è interessante sul versante religioso, perché essa nasce proprio sul terreno teologico.
Che considerazioni si possono svolgere sull’approccio libertario sostenuto da Corbellini e Lalli?
Reichlin. Ritengo che l’approccio libertario sia importante nel panorama contemporaneo perché mette al centro l’idea chiave intorno alla quale nasce la bioetica, l’idea di autonomia, di libertà di decisione delle persone, con il superamento del paradigma paternalistico nel rapporto medico-paziente della tradizione ippocratica. Un approccio non sempre valorizzato da parte della riflessione teologica. Ciò che è meno persuasivo, a mio parere, è che questo approccio riceve in genere una caratterizzazione e una valorizzazione univoca, assurgendo a unico metro di giudizio. Ne condivido l’importanza, ma non penso che si possa fare una riflessione complessiva concentrata unicamente sul concetto di autonomia. Esistono anche altri valori, che non possono venire trascurati. Si rischia di sacrificare la giustizia, l’equa distribuzione delle risorse e l’opportunità di accesso alle cure. Si tratta di novità radicali nel rapporto medico-paziente che i libertari spesso dimenticano. Anche la beneficenza e la cura, la prossimità verso i più deboli costituiscono elementi importanti da evidenziare, intraducibili nel principio di autonomia.
Che considerazioni si possono svolgere sull’approccio tradizionale di difesa della vita sostenuto da Reichlin e Chiodi?
Corbellini. Mi nutro regolarmente delle riflessioni filosofiche di studiosi come Reichlin: non sottovaluto per nulla il pensiero teologico e l’approccio tradizionale. Rimane importante ciò che hanno detto persone che ragionavano sulle sfide del loro tempo. A mio avviso, alcuni approcci che danno grande ruolo ai valori tradizionali sono confessionali e dogmatici, ma altri non lo sono. Io considero soprattutto le conseguenze che discendono dal basarsi quei valori e su quelle dottrine, che spesso sono state confutate. Pensiamo, per esempio, a Kant: secondo me, oggi è poco utile, perché ragiona su un modello di razionalità ideale, che opererebbe nei giudizi morali, che pochissime persone sviluppano, dato che non riescono a controllare le influenze del sistema limbico, cioè le emozioni immediate. Non va dimenticato però che è stata la teologia ad aprire il discorso della bioetica sul piano teorico. Quando rileggo alcuni discorsi di Pio XII ai medici, li trovo esemplarmente lucidi. Si tratta quindi di un punto di vista di estrema rilevanza, con cui si devono continuare il dialogo e il confronto.
D. Ha ancora senso o è fuorviante l’uso delle etichette bioetica “laica” e “cattolica”?
Reichlin. Sono etichette che si continuano a usare perché molti, su entrambi i versanti, sono loro affezionati. E hanno comunque una validità descrittiva. C’è una bioetica ispirata alla teologia, a idee religiose, che fa della bioetica un capitolo di prassi pastorale; d’altra parte, si afferma che deve esservi una bioetica del tutto secolare, il cui presupposto è dato da qualche tesi pregiudizialmente contraria a fede e dimensione trascendente. Ma si tratta di posizioni fideistiche, di modi dogmatici di vedere le realtà, in quanto negano la legittimità di altre visioni. Le riflessioni più importanti sono quelle che si collocano al di fuori dei fideismi, che non precostituiscono verità e posizioni e si confrontano con tutte le fonti di senso che gli esseri umani attivano di fronte a nascita, cura e morte. Ritengo che si debba essere totalmente laici dal punto di vista metodologico, disposti a considerare ogni elemento e ragione, senza pregiudizi. Ciò non equivale a essere laici in un altro significato, sostanziale, circa Dio e la libertà.Corbellini. Ripeterei con altre parole le stesse idee. Parlerei piuttosto di bioetica all’italiana, fatta di guelfi e ghibellini. Sui temi bioetici mi schiero nel merito di ciascuno, ma non faccio ideologia delle mie posizioni. Posso essere a volte d’accordo con posizioni della bioetica di tipo cattolico e altre volte con posizioni della bioetica cosiddetta laica: dunque, dove mi colloco? Non sono credente, ma ritengo che la religione abbia rappresentato un fattore fondamentale nell’evoluzione della moralità umana. Non posso quindi stare con chi preclude del tutto il confronto con posizioni teologiche. E la razionalità, tanto elogiata di laici, è spesso un autoinganno, come ci dicono gli studi empirici.
Resta il fatto che da una parte si enfatizza la libertà e dall’altro si sottolineano i vincoli…
Corbellini. Vorrei precisare che la libertà non è assenza di regole, si esercita con elementi e vincoli dati dall’esperienza e dalle conoscenze. Non è fare quello che ci pare. Gli esseri umani vengono al mondo con predisposizioni che sono in dissonanza con l’assetto delle società moderne: per vivere bene e ottenere i benefici straordinari offerti oggi, dobbiamo fare il passaggio dell’educazione, cioè acquisire vincoli interni, che quanto più sono radicati tanto più permettono di godere di una libertà che fa bene a noi e non fa male agli altri. Semplificando, non è che se qualcuno si alza la mattina e chiede di farsi uccidere da un medico, dovrebbe poterlo fare. Potrebbe avere problemi risolvibili e per prima cosa va mandato da uno psichiatra... Vi sono limiti anche nell’autodeterminazione.
Reichlin. Si tratta di calare la libertà in ciò che possiamo e non possiamo essere. C’è una diversa prospettiva tra chi sottolinea l’autodeterminazione e chi sottolinea la dimensione del vincolo, che non è solo negativa. Il vincolo è la relazione che ci lega e che ci consente di fare alcune cose che senza la relazione non potremmo fare; conferisce senso alle nostre vite. Non siamo individui solitari, se possiamo dare senso all’esistenza è perché siamo in relazioni con altri, relazioni che costituiscono binari su cui ciascuno costruisce il proprio percorso. Questo è il vincolo positivo.
Dal punto di vista teoretico, c’è spazio per la complessità del reale, con le sue sfumature. Ma, in alcuni casi concreti, sembra debbano esservi decisioni del tipo “tutto o niente”. Potrebbe essere uno di questi la maternità surrogata. Qual è il vostro approccio?
Corbellini. Penso che la maternità surrogata non dovrebbe essere vietata. E che bisognerebbe adottare un approccio “aperto”. Ogni caso va valutato in base ai rischi che la procedura pone al bambino o alla madre. Una ragione per non proibire è che quando certe procedure sono disponibili, prima o poi sono comunque utilizzate. Io posso anche dire che non vi ricorrerei, ma so che qualche persona facoltosa troverà il modo di farlo. Se è dimostrato che una tecnologia non causa danni, va ammessa. Se causa danni, va vietata; se c’è sospetto che lo faccia, va monitorata nei suoi effetti. Tendo a rifiutare un approccio “sì o no”. Bisogna studiare e valutare empiricamente. Tante pratiche mediche fondamentali sono state avversate per secoli o decenni, a partire dalle vaccinazioni (Kant diceva che si diventa bestie) o dall’anestesia.
Reichlin. Credo che la posizione di Corbellini sia la più ragionevole se si vuole difendere la maternità surrogata. Ma la mia posizione è diversa. In generale, non penso che sia una buona idea. Credo che la maternità surrogata costituisca una tecnologia diversa dalle innovazioni medico-scientifiche citate, che sono rivolte alla cura. In questo caso, la tecnologia fa una cosa nuova e differente, introduce una rottura con l’interpretazione tradizionale, radicata nel nostro pensarci come mammiferi, cioè coloro che vengono al mondo essendo recati in grembo dalla madre. Non c’è discontinuità solo sul piano biologico e tecnico, ma si va a incidere sulla dimensione culturale e simbolica dell’animale umano. Non so dunque se i vantaggi valgono i rischi di certe conseguenze. Si dice che la maternità surrogata pone a rischio l’equilibrio del nascituro, il quale si trova ad avere due madri, anche se una può poi scomparire. E non c’è solo l’etica teologica-religiosa che insiste sui pericoli per il figlio. L’etica femminista evidenzia opportunamente anche le conseguenze sul ruolo della donna, sulla concezione della maternità. Le madri sono al centro del nostro venire ed essere al mondo, del nostro educarci all’esistenza umana. Il cosiddetto lavoro riproduttivo dovrebbe quindi rimanere in quella dimensione simbolica, valoriale, creativa di cui la dimensione biologica è fondamento. La maternità surrogata lo fa passare a una logica produttiva e commerciale che inevitabilmente rappresenta una forma di svilimento di quel lavoro. È una pratica che fa perdere la centralità simbolica di essere portati da una donna, divenendo un oggetto di relazione contrattuale e di scambio di servizi.
Si può pensare di porre qualche limite alla ricerca, almeno nella forma di restrizioni dei finanziamenti pubblici. Per esempio, se qualcuno volesse studiare la gravidanza extracorporea...
Reichlin. Nell’ambito delle decisioni pubbliche, considerando difficoltà e vincoli di natura economica, la considerazione fondamentale è quella di stabilire priorità. Non so se si possa pensare che l’obiettivo di fare sviluppare un feto al di fuori del corpo di una donna debba essere escluso a priori. Se ragioniamo in termini di priorità, vi però sono obiettivi di ricerca ben più importanti. Come la cura di tante patologie ancora senza rimedio.
Corbellini. In termini di conoscenza, non vi sono limiti da porre alla conoscenza, esclusi i casi in cui si fa del male a qualcuno o si danneggia l’ambiente. In ambito pubblico, vi devono certamente essere delle priorità, ma una parte dei fondi dovrebbe andare alla ricerca guidata dalla curiosità, perché è da questa ricerca di base che poi vengono le migliori applicazioni. La gravidanza extracorporea non è una priorità, ma possiamo pensare a studi sui mammiferi che riescano a ottenere conoscenze tali da consentire quella tecnologia; è a quel punto che dobbiamo discutere se ci può servire. Chiudendo a innovazioni che entrano in conflitto con le nostre intuizioni morali, perdiamo la possibilità di ottenere cose positive e di gestirne l’applicazione.
In campo bioetico, il rapporto tra esperti, decisori e opinione pubblica è molto delicato. Come dovrebbe essere articolato, a vostro giudizio?
Corbellini. Penso che vi sia una posizione sicuramente sbagliata, cioè costruire dati inesistenti per sostenere qualcosa che causa danni. Posso ammettere che dei politici disapprovino la Legge 40 sulla fecondazione assistita, ma ritengo scorretto cercare pseudoesperti a sostegno di posizioni che non hanno basi mediche. Molto meglio affermare che una certa lettura della Costituzione non consente di approvare una data pratica. Poi magari un altro Parlamento cambierà la legge. Perciò il problema degli esperti nelle società democratiche è complesso. In sintesi, gli esperti hanno il compito di mettere a disposizione le conoscenze, i governanti dovrebbero fare leggi conseguenti, che non provochino danni, la pubblica opinione dovrebbe farsi un’idea per quanto possibile adeguata dei temi in discussione, dato che le persone non nascono con conoscenze e capacità di buon ragionamento. La bioetica dovrebbe fare da ponte e non da barriera, come spesso accade.
Reichlin. Sono d’accordo con Corbellini. Non esistono “esperti nati” su questioni bioetiche, e affidare queste ultime unicamente a un’opinione pubblica poco informata non è buona idea. Il ruolo degli esperti resta tuttavia problematico, perché la politica ha poca attenzione verso chi è competente, in particolare gli scienziati, il cui parere è rilevante non tanto sul piano etico, ma su quello fattuale, poiché la realtà limita le opzioni normative. L’altro elemento da considerare è che gli esperti non sono neutrali, ma esseri umani con convinzioni e valori. Infine, accade spesso che gli esperti siano selezionati proprio sulla base della condivisione di certi valori: in questo modo la loro funzione diventa retorica, direi decorativa. In Italia, a mio parere, mancano filosofi che si occupino approfonditamente di bioetica e scienziati che siano buoni divulgatori. Tutto questo crea un serio problema di trasferimento del sapere in ambito sociale e politico.
In definitiva, vedete il disaccordo bioetico come persistente o notate segnali di convergenza tra diverse prospettive?
Corbellini. Mi pare vi sia un cambiamento in corso. Insegno da 20 anni e quando trattavo certi temi di bioetica, incontravo reazioni scontate, di forte autodifesa della autorità medica e dei suoi spazi. Oggi è diverso, le posizioni si attenuano con il passare del tempo. E c’è più dialogo tra esperti.
Reichlin. Ho sempre pensato che sia possibile trovare convergenze ragionevoli tra persone portatrici di diverse posizioni generali. E ciò accade quanto più la discussione mantiene un livello alto, scientifico, succede invece tanto meno quanto più la discussione diventa politica. Il problema della bioetica in Italia è stato a lungo la traduzione sul piano etico del bipolarismo politico, che ha portato conseguenze nefaste, mi sembra che le cose oggi vadano meglio.