Ritratto del cardinale Roberto Bellarmino conservato al Museum Plantin-Moretus di Anversa - WikiCommons
“Ripensare Bellarmino tra teologia, filosofia e storia” è il titolo del convegno internazionale con cui dal 17 al 19 novembre la Pontificia Università Gregoriana di Roma celebra, a 400 anni dalla morte il suo santo patrono Roberto Bellarmino. Aprirà i lavori il rettore dell’ateneo, il gesuita portoghese e storico Nuno da Silva Goncalves. Tra i partecipanti, il teologo Dario Vitali, gli storici Miguel Coll, Massimo Carlo Giannini e Franco Motta, considerato tra i biografi più autorevoli di Bellarmino, il biblista Jean Louis Ska, del cui intervento anticipiamo una sintesi. Parteciperà al simposio anche il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Luis Ladaria Ferrer. (F.Riz.)
Di san Roberto Bellarmino (1542-1621), gesuita e cardinale, si conosce soprattutto il controversista nelle discussioni fra protestanti e cattolici attorno al concilio di Trento. Si parla anche del suo ruolo nei processi di Galileo Galilei, di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella. Gli specialisti sono a conoscenza del suo contributo alla nuova edizione della Vulgata, sempre nel contesto del Concilio di Trento. Un volto meno conosciuto del personaggio è quello dell’umanista e del biblista. Esistono, però, almeno quattro opere esegetiche di un certo rilievo che valgono la pena di essere menzionate.
L’opera più importante del Bellarmino nel campo biblico è senza dubbio un suo commentario ai Salmi destinato al clero invitato a recitare il breviario quotidianamente. Il suo commentario ha avuto un successo inaspettato. Contiamo trentasette edizioni o ristampe fra il 1611, anno della prima edizione, e il 1882. Poi, per ragioni non sempre facili da individuare, scompare dalle vetrine dei librai per quasi cinquanta anni. Riappare nel 1931 in una edizione curata dal padre Romualdo Galdós, professore di esegesi alla Pontificia Università Gregoriana, e probabilmente all’occasione della sua canonizzazione nel 1930. In seguito, il commentario rimane sugli scaffali delle biblioteche, però è sempre meno utilizzato o citato.
Conserva alcuni meriti, tuttavia. Esso è scritto in latino, e questo spiega in parte il suo progressivo disuso. Offre una traduzione che tiene conto dell’ebraico, della traduzione dei Settanta (LXX) e della Vulgata. Il Bellarmino si rivela anche molto moderno sotto un aspetto che, a prima vista, ne fa un “conservatore”. In effetti, per difendere il valore della Vulgata, cosa raccomandata dal concilio di Trento, il Bellarmino ricorre a un argomento che ritroviamo in recenti studi nel campo della critica testuale.
Bellarmino considera spesso – ma non sempre – le varianti della Settanta o della Vulgata superiori al testo masoretico per una ragione semplice: afferma che i manoscritti usati ad Alessandria dai traduttori della Settanta e i codici a disposizione di Gerolamo a Betlemme erano più antichi dei manoscritti ebraici dei Masoreti. Oggi, questo dato è stato convalidato dalle scoperte di Qumran, abbinato a un rinnovato interesse per la Vetus latina, una prima traduzione in latino a partire dalla Settanta. Bellarmino era anche un ebraista di un certo calibro.
Si conosce un manuale l’apprendimento dell’ebraico che è stato ristampato diciotto volte fra il 1578 e il 1624, vale a dire più o meno una volta ogni sei anni. L’opera fu scritta mentre il Bellarmino occupava la cattedra delle controversie al Collegio Romano di Roma.
Esiste anche un quaderno manoscritto di note ad alcuni capitoli del libro della Genesi, conservato con cura nell’archivio della Pontificia Università Gregoriana. Il volume, di non facile lettura, risale agli anni di insegnamento a Lovanio (1570-1576).
Il Bellarmino, come molti studiosi dell’epoca, conosce l’ebraico, il greco e il latino. Cita spesso i grandi rabbini come Rashi, Ibn Ezra e Kimchi. Si occupa di traduzione e di interpretazione. Un capitolo molto studiato è Genesi 49, un testo difficile e molto discusso che riporta le benedizioni (e maledizioni) delle dodici tribù da parte di Giacobbe prima di morire.
Infine, il Bellarmino commenta le sette parole di Cristo in croce, opera dell’ultima parte della sua vita ( De septem verbis Christi, 1618), pochi anni prima della sua morte. Il Bellarmino non è forse una figura maggiore nella storia dell’esegesi, però possiamo dire che è stato un anello solido nella catena dell’esegesi biblica nel mondo cattolico.