Kehinde Wiley "Gallo morente", bronzo, 2002. L'opera è in mostra nella personale dell'artista americano "An Archaeology of Silence" a Venezia, Fondazione Cini, fino al 24 luglio - © Courtesy Templon, Paris – Brussels
Al via la diciassettesima edizione, del festival "Filosofi lungo l’Oglio", dal 10 giugno al 31 luglio. Tra i numerosi interventi attesi quello di Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, che terrà l’incontro “Despoti, filosofi e borghesi: l’odissea della libertà” il 21 luglio a Castegnato (Brescia) e anticipa qui i temi portanti della sua riflessione. I particolari del folto programma consultabili sul sito internet del festival.
Oggi soltanto il 20 per cento della popolazione del pianeta gode di una piena libertà. Se prestiamo attenzione, possiamo sentire le grida – o i sussurri – degli oppressi. In Africa la percentuale scende al 7 per cento, in Asia si ferma al 5 per cento, in Medio Oriente crolla al 4 per cento, nell’Eurasia – regione che ricomprende la Russia, la Bielorussia, le ex repubbliche sovietiche centroasiatiche – si annulla allo zero per cento. Suona un chiaro campanello d’allarme: nel tempo le cose peggiorano, anziché migliorare. Dall’inizio degli anni 2000, il numero dei paesi che arretrano nel garantire il rispetto dei diritti civili e delle libertà politiche supera ogni anno il numero di quelli che avanzano. Il grande progetto della modernità, fondato sulla razionalità della tecnica e del diritto, su cui per due secoli si è modellata la civiltà liberale, ha cominciato a scricchiolare quando non è stato più in grado di soddisfare le aspettative soggettive come in passato e si è rivelato incapace di mantenere le promesse di benessere. Ha perso attrattività agli occhi di chi ci osserva da lontano, e pure qualcuno dalla nostra stessa parte del mondo ha cominciato a fare qualche domanda scomoda. L’assalto dello scorso anno a Capitol Hill – il tempio inviolabile delle moderne democrazie liberali – ne è stata una plastica riprova. Mentre il baricentro del mondo si sposta dall’Atlantico al Paci- fico, alle nostre latitudini il progresso sociale ha iniziato la frenata, lasciando una scia di delusione, frustrazione e incertezza. Si è trasferito in altre regioni del mondo e – cosa più importante di tutte –– per la prima volta si è separato dal parallelo cammino della libertà. La Cina, per esempio, ha compiuto avanzamenti sociali straordinari in un arco di tempo brevissimo. Negli ultimi trent’anni, il Pil è aumentato di 14 volte, il tasso di mortalità infantile è stato ridotto da 42 a 7 ogni mille nati, l’aspettativa di vita si è allungata da 69 a 77 anni, il tasso di iscrizione all’università è passato dal 3 al 58 per cento dei giovani che concludono gli studi superiori, la popolazione in miseria era pari a due terzi del totale e oggi è appena lo 0,5 per cento. All’impetuoso sviluppo dell’economia si è accompagnato l’accesso di massa ai consumi, così anche in quel paese si è formata un’ampia classe media, più sana, più istruita, più benestante. Eppure in Cina il potere è in mano a un regime autoritario e illiberale. Questo vuol dire che la crescita economica e il miglioramento delle condizioni sociali non sono necessariamente correlati con un maggiore grado di libertà. Allora, a cosa serve la libertà, se una società può stare meglio anche senza essere libera? Negli anni a venire le società aperte dell’Occidente dovranno misurarsi con questo interrogativo lacerante. Insinuandosi come un tarlo nelle coscienze, il dubbio può corrodere il loro basamento, vale a dire l’idea che la libertà sia l’elisir più prezioso, essenziale, indispensabile per l’emancipazione umana, per accrescere la prosperità degli individui e le fortune dei popoli. Quando si era radicata nella nostra cultura questa convinzione, alla quale siamo pervicacemente affezionati? Dopo l’assalto alla Bastiglia condotto dalla ragione illuminista, fu il filosofo Hegel a concepire la libertà come fine necessario della storia. Era l’alba della nuova epoca borghese, quando i despoti dell’antico regime venivano tolti dai loro troni. Dunque, oltre a un certificato di nascita, la libertà ha anche una data di scadenza? Il capitalismo politico della Cina post-comunista, offerto come modello da un paese che ha realizzato sotto i nostri occhi il più grande esperimento di progresso sociale in assenza di libertà, può esercitare una forte attrazione su potenziali emulatori sparsi per il mondo. Non a caso, anche in Europa qualcuno parla di 'democrazie illiberali' come forme di governo auspicabili. Potremmo sospettare che il connubio hegeliano di ragione e libertà sia una macchina mitologica storico- sociale che ha fatto il suo tempo. E che il 'disincanto del mondo' abbia consumato, a poco a poco, «l’edificio duro come l’acciaio» della modernità, come lo chiamava Max Weber. C’è però un’alternativa ancora più inquietante. Basta guardare laggiù, davanti alle bocche dei cannoni. Benché la Russia sia lo Stato con la superficie più estesa al mondo – è attraversata da 11 fusi orari – e il suo sottosuolo sia ricco di risorse naturali, di gas e petrolio, può contare su un Pil inferiore a quello dell’Italia, meno della metà di quello della Germania: oggi la ricchezza pro capite di un russo non raggiunge quella di un rumeno. A quel popolo non è data né la prospettiva della libertà, né il risarcimento di un benessere accresciuto. Allora non rimane che instillare nell’immaginario collettivo una narrazione ingannevole: quella del nazionalismo imperialista, l’illusione di essere eletti a un primato egemonico, dunque la legittimazione della violenza sanguinaria affinché quel supposto destino si compia. «La storia è un mattatoio», diceva Hegel: lo constatiamo inorriditi da mesi ormai, da quando la storia si è rimessa in moto.