Umiltà, coraggio e santità. Sono le tre parole che forse meglio sintetizzano il ritratto di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI tracciato da Elio Guerriero. Lo scrittore e teologo, oltre che collaboratore di
Avvenire, che in questi giorni porta in libreria per Mondadori
Servitore di Dio e dell’umanità. La biografia di Benedetto XVI. Anche dialogando con lui si ha la sensazione che queste siano le cose che lo hanno maggiormente colpito della figura del Papa emerito, proprio cominciando da quest’ultima fase della sua vita seguita alla rinuncia all’ufficio petrino: «Mi piace sottolineare l’importanza della scelta di vivere nel monastero Mater Ecclesiae all’interno del Vaticano. Lui dice che è voluto restare nel recinto di Pietro. Certamente è un’umile testimonianza di comunione con Francesco, ma anche di vita ritirata e dedita alla preghiera. Un modello di santità e di accompagnamento al ministero del suo successore».
Spesso nel suo ministero Benedetto ha insistito sulla conversione del cuore richiamando anche il Concilio col concetto di vocazione alla santità. «Ha sempre avuto chiara l’idea che la Chiesa ha urgenza di riscoprire il valore della santità e della vita spirituale. Ne ha parlato più volte come proposta di vita per tutti, come ritorno all’essenzialità del cristianesimo. Con la scelta di ritirarsi a vita monastica, lui che avrebbe avuto davanti molte altre e più comode possibilità, ha voluto fornire un modello concreto di come questo sia possibile».
Da qui l’insistenza sulla figura di Gesù, soprattutto negli ultimi anni di pontificato? «Per lui è stato di importanza centrale. I tre volumi su Gesù hanno richiesto un impegno fortissimo se si considerano i già tanti impegni che deve affrontare un papa. Voleva che la figura di Gesù tornasse familiare e vicina a tutti i credenti, generando per essa un amore tenero e appassionato. Allo stesso tempo voleva essere una risposta al timore che un eccesso di esegesi finisse per frammentare e depotenziare il messaggio di Gesù oscurandone il volto. Ognuno quando prega ha bisogno di avere la sensazione di confrontarsi con una persona, non semplicemente con un versetto biblico. Per questo ha sempre molto insistito sulle figure dei santi, sostenendo che le loro vite concrete sono la migliore spiegazione del Vangelo, perché lo rendono vivo nel tempo e invitano noi stessi a vivere da santi. In questa direzione sono da leggere i suoi frequenti pellegrinaggi nei luoghi dello spirito: dai santuari mariani in Germania a quelli italiani, da Lourdes a Manoppello, dalla Montecassino di Benedetto alla Pavia di Agostino alla Bagnoregio di Bonaventura».
Nella prefazione al suo libro, che proponiamo in pagina, papa Francesco parla di Benedetto sottolineandone il coraggio e la determinazione. «Nei fatti è da sempre una persona che non ha timore di prendere posizioni impopolari quando si tratta di agire per il bene della Chiesa. Lo ha fatto da teologo, da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, da Papa. Ricordo l’intervista concessa a Messori nell’85 quando criticò la teologia della liberazione tirandosi addosso molta impopolarità. Mentre molti teologi dicevano di rifarsi, molto genericamente, allo “spirito” del Vaticano II, lui ha sempre richiamato al “dettato” del Concilio. Ha preso esempio da Von Balthasar, che non ha mai avuto timore di criticare le posizioni teologiche dominanti. Tante volte, da papa, ha esortato i vescovi e i sacerdoti a essere coraggiosi, a non farsi mediatori del consenso».
Coraggiosa e certamente profetica è stata la scelta del nome Benedetto, che guardando al santo di Norcia lanciava un messaggio di esortazione e di speranza nell’Europa. «Sia per formazione che per vicinanza a Giovanni Paolo II ha sempre avuto nella mente e nel cuore l’Europa e il monachesimo. Per lui la regola benedettina è stata il crogiolo capace di fondere popoli diversi con la cultura latina dando vita a quell’umanesimo sul quale si è costruita l’Europa e una cultura che esaltava l’umanità piena della persona. Da Papa, consapevole della forte crisi che attraversava il Continente, impoverito dall’ateismo materialista, aveva in mente un’Europa capace di ritrovare slancio in un orizzonte religioso ampio, dialogante, in un rapporto fecondo fra le religioni, con le scienze, la natura, l’arte, la musica...».
Possiamo dire che il laicismo materialista si è messo di traverso e l’Europa ha tradito il suo sogno? «Se guardiamo al breve termine possiamo dire di sì. Ma lui ha sempre guardato lontano, pensando all’inizio di un percorso per il nuovo millennio. Sì, forse ha perso il
game, ma a lungo termine la sua proposta di nuovo umanesimo per un’Europa che riparte dalla consapevolezza di se stessa, dalle sue radici cristiane, resta lì come possibile strada del rilancio».
In questo senso è da leggere anche il suo insistere sul dialogo fra scienza e fede? «Il suo modello di nuovo umanesimo è un luogo dove credenti e non credenti possono incontrarsi e dialogare. In questo senso si muove l’idea del “Cortile dei gentili”. Sempre però ricordando che il dialogo deve essere aperto e deve partire dalle posizioni reali di ciascuno. Benedetto è sempre stato l’uomo del dialogo, ma senza mai evitare le domande forti, i problemi veri. Una visione profetica, capace di precorrere i tempi, di anticipare soluzioni. Ora, forse, ce ne rendiamo conto più che mai».
Lei sostiene che ha introdotto la Chiesa nel Terzo millennio. «Ha capito che non era più tempo di inseguire le problematiche del XX secolo e che bisognava aprirsi a tematiche nuove come il rapporto fra i credenti e le sensibilità laiche, il dialogo sincero fra le religioni, la promozione di una spiritualità rinnovata, l’apertura al perdono, alla misericordia...»
...E il riconoscimento dei propri errori. «Il testo della Via Crucis del 2005 è emblematico. E lui come il Cireneo ha scelto di portare il peso dello scandalo, delle debolezze della Chiesa. Incominciò a incontrare le vittime, pregando con loro, piangendo con loro».