Un momento di “War” del regista olandese Jetse Batelaan, Leone d’argento alla Biennale Teatro di Venezia
«Parlando della guerra con i miei bambini mi sono accorto che non sapevo cosa dire. Come fai a spiegare la guerra a un bambino?». È per questo motivo che l’innovativo regista olandese Jetse Batelaan, direttore artistico della compagnia Teater Artemis, compagnia leader del settore dedicato al teatro-ragazzi, ha creato War, uno spettacolo per i bambini dai 6 anni in su. Lo vedremo a Venezia il 24 luglio, insieme a The story of the story che apre il 22 luglio il l 47° Festival Internazionale del Teatro che si svolgerà in laguna sino al 5 agosto. Inoltre la Biennale Teatro, diretta da Antonio Latella, ha deciso per la prima volta di premiare il teatro per ragazzi, consegnandogli il Leone d’Argento alla carriera per il Teatro 2019 (al drammaturgo tedesco Jens Hillje va invece il Leone d’oro). Jetse Batelaan, ovviamente onorato per il riconoscimento, si racconta ad Avvenire.
La motivazione con cui la Biennale la premia recita che «con Batelaan il teatro per ragazzi, che spesso viene a torto considerato di serie B, torna a rivestire l’importanza che merita e che ha avuto in passato».
«Sono felice di fare parte di questa rivoluzione. Il teatro ragazzi è un teatro sperimentale, ma mi dicono che spesso viene sottovalutato in Italia, come fossero le paralimpiadi dell’arte. Io parlo dalla prospettiva olandese, che è molto positiva. Presento ben due spettacoli alla Biennale. Story of the story è una grande ccoproduzione con il più importante teatro nazionale olandese. La nostra compagnia Artemis ha una posizione specifica, siamo focalizzati sul target dell’infanzia, ma abbiamo una audience sempre più di adulta. La nostra compagnia è parte del panorama teatrale principale e le nostre sperimentazioni fanno parte del teatro per adulti. Raccontiamo come è la vita».
Guerra compresa...Una sfida difficile raccontarla in uno spettacolo per bambini dai 6 anni in su?
«Sì, mi piacciono le sfide. Questo è uno spettacolo che insegna a pensare in modo indipendente. Oggi non è come siamo cresciuti noi, con una divisione fra generazioni. Qui c’è un teatro permette ai bambini di essere liberi, di fare scelte autonome. Mi piace ascoltarli».
Come è nato “War”?
«L’ho scritto quattro anni fa. Mi piace fare cose che sembrano impossibili, non amo l’ovvio. In questo caso, però, ho pensato che fosse una sfida troppo grande. Perché il tema è intenso, serio, enorme, ma al tempo stesso occorreva comunicarlo ai bambini piccoli. Non potevi mostrare direttamente il crudo impatto della guerra, i bimbi li devi proteggere in qualche modo, ma dall’altra parte non puoi portare in scena solo una performance divertente perché ti devi rapportare alla serietà del soggetto. La ragione per cui ho voluto scriverlo, è stata l’emergenza di Aleppo su cui stavano cadendo le bombe mentre tanti bambini arrivavano anche in Olanda fuggendo dalla Siria».
Ha conosciuto quei bambini?
«È un tema vicino alla mia famiglia, perché mia moglie è una insegnante per bambini rifugiati. Al tempo stesso i miei figli, che all’epoca avevano la stessa età di quei piccoli fuggitivi, tendevano ad amare la guerra come gioco. Per me era veramente difficile spiegare loro il serio impatto dei conflitti. Mi sono reso conto che quello che sapevo sulla guerra non era di più di quello che sapevano i miei bambini. Tutti insieme, quindi, affrontiamo la sfida di raggiungere la pace attraverso la guerra»
Cosa succede nello spettacolo?
«Lo spettacolo è la guerra in sé, la guerra fra gli attori sul palco e il pubblico in sala trattata in chiave surrealista e assurda. Gli attori iniziano la guerra, perché è facile cominciare. Il mio spettacolo è incentrato su quanto sia difficile, invece, terminarla: se vuoi finire questa commedia, tu devi raggiungere la pace, altrimenti lo spettacolo non finisce. Mostriamo diversi aspetti della guerra: il fumo, le grida, la resa, le rovine. E la paura. Sul palco ci sono tre soldati spaventati dagli attacchi dei bambini per i quali è eccitante essere i nemici di questi tre poveracci impauriti. In alcuni momenti i bambini osservano, in altri lanciano oggetti, urlano, esprimono se stessi. Da mesi War è un successo perché funziona su due diversi livelli. Per i bambini è un gioco, ma per noi adulti, genitori o insegnanti, è uno spettacolo commovente perché ricorda i bambini coinvolti davvero in quelle situazioni, grazie anche a immagini che ricordano i conflitti di oggi».
Uno spettacolo educativo per adulti e piccini in un momento in cui l’Europa è divisa sui rifugiati?
«L’importante è che noi adulti ci confrontiamo con questi argomenti e ne parliamo con i bambini, senza chiudere loro gli occhi davanti alla realtà nell’illusione di un mondo di pace e felicità. C’è di più nella vita ed è importante farglielo conoscere. Molti piccoli spettatori, hanno cominciato a fare ai genitori domande sulla guerra dopo lo spettacolo. Certo, durante lo show sono presi dal divertimento, e quando capiscono che stanno andando verso la pace sono delusi perché gli piace combattere. Ma dopo la loro esaltazione, segue la fase in cui si rendono conto di che cosa hanno veramente fatto.»
Prima di darsi al teatro ragazzi, lei ha avuto una prestigiosa carriera in quello per adulti. Come mai lo ha abbandonato?
Mi sono laureato ne 2003 nella principale scuola di regia ad Amsterdam. Ho iniziato a lavorare nel teatro per adulti, ma al tempo stesso creavo lavori per ragazzi scritti da me, sperimentando. Era logico per me fare anche teatro per ragazzi. A un certo punto sono stato invitato a fare il direttore stabile della più grande compagnia olandese a Rotterdam, ma a un certo punto il programma era diventato troppo commerciale. Non volevo adeguarmi e ho capito che nel teatro ragazzi avrei avuto più libertà per sperimentare e di cercare nuove strade creative per raccontare e avere uno scambio col pubblico. Noi di Artemis lavoriamo con migliaia di bambini grazie anche ai progetti nelle scuole, non solo per una minoranza dell’alta società. Il mio lavoro consiste sempre nel rompere le regole e le barriere, creare progetti d’arte senza professionisti, ma con bambini e scolaresche e creare insieme a loro. Il pubblico ha veramente una parte importante nel processo creativo, non solo come spettatore in sala».