Martedì prossimo la Parigi cestistica si ritroverà ancora al palazzetto da 5mila posti della Halle Carpentier. Sul parquet torna il grande basket europeo con la sfida italo-francese di Eurocup - l’ex Coppa Korac - fra Cantù e la Jsfn Nanterre. Quest’ultima, campione di Francia in carica, esibisce fieramente sulle bandiere le proprie radici remote. Venne creata nel 1927, quasi un decennio prima rispetto alla squadra comasca, ma la sua storia è decisamente diversa. Perché la Jsfn appare ancor oggi come una sorta di splendida “intrusa” nelle alte sfere del basket non solo europeo, ma anche francese. Un
parvenue, anzi, “un prodigio” visto che in 15 anni, la Jsfn ha scalato 10 categorie: è entrata fra i professionisti nel 2004, ha conquistato la prima divisione nel 2011 e centrato lo scudetto al secondo assalto. Nel raccontarne la storia
Le Monde ha titolato: “Il basket come religione”. Perché la Jsfn non rinnega la propria origine di squadra d’oratorio, nata sotto il campanile della chiesa di Sainte Marie des Fontenelles, nel cuore di un comune operaio della banlieue Ovest guidato da tante giunte comuniste. Si tratta della stessa Nanterre dove scoppiò il primo focolaio del Maggio ’68, dilagato poi nel cuore della capitale. Solo che ora, in occasione delle partite europee di basket, lo stesso itinerario Nanterre-Parigi è seguito dai fedelissimi della Jsfn, perché il palazzetto di banlieue dove i verdi accolgono i rivali in campionato contiene solo 1.600 spettatori. Soprannominata “Pollicino”, la Jsfn la scorsa stagione ha sbaragliato la concorrenza nazionale nonostante la più magra dotazione finanziaria del campionato, circa 2,6 milioni di euro. E adesso, in Europa, affronta compagini straniere anche dieci volte più ricche. Ma senza lasciarsi intimorire, visto che nei mesi scorsi è riuscita persino ad espugnare Barcellona (in Eurolega). L’uomo a cui tutti attribuiscono il prodigio è il presidente, Jean Donnedieu, il cui cognome suona un po’ come il nostro “Diodato”. Da mezzo secolo, spende sudore per il club, dove giocò da dilettante. E quando gli chiedono dove stia il segreto, l’umile patriarca se ne esce con una massima di Mark Twain: «Non sapevano che era impossibile, dunque l’hanno fatto». Nonostante i recenti trionfi, i valori dei “verdi” ruotano attorno alla volontà ostinata di «non sacrificare l’anima da squadra amatoriale» alle logiche sempre più spinte del business sportivo. La stessa sigla del club, che sta per Jeunesse sportive des Fontenelles (Gioventù sportiva delle Fontenelles, con riferimento proprio alla parrocchia delle origini), suona già come un paradosso alle orecchie di molti. Così come la gestione molto familiare della squadra. Sulla panchina è subentrato Pascal, il figlio del presidente, ma nessuno ha mai fiutato rischi di nepotismo, tanto è forte la scia di semplicità e probità impressa dalla famiglia dopo decenni di sacrifici nell’ombra. Come gli altri tesserati, padre e figlio pagano da sempre integralmente l’abbonamento annuale. E Pascal, fra l’altro, continua ancor oggi a prestare soccorso a una piccola squadra di un comune vicino, Rueil-Malmaison, quando il tecnico locale è indisposto. La solidarietà di gruppo, alla Jsfn, è riconosciuta come esemplare e si contagia fra gli atleti fin dal loro arrivo. E non ne sono immuni nemmeno i giocatori giunti dagli Usa. Una solidarietà che si allarga ai rapporti fra i professionisti e il vivaio: «Stiamo vicini ai nostri piccoli», spiegano ogni volta i campioni di Francia quando sono sorpresi a prodigare consigli ai ragazzi. Originalissimo, nella storia della Jsfn, è pure il rapporto con la città che rappresenta. Una storia alla don Camillo e Peppone. Negli anni Ottanta, fu Donnedieu a chiedere e ottenere la prima convenzione fra la squadra d’origine parrocchiale e la giunta comunista. Il ruolo d’integrazione dello sport nei quartieri sfavoriti è divenuto il perno di un connubio capace di resistere negli anni. Gli stessi in cui, dopo l’annessione di un’altra compagine locale, la Jsfn è riuscita definitivamente ad entrare nel cuore della comunità cittadina, divenendo oggi sorprendentemente l’emblema della “rivoluzionaria” Nanterre.