Sotto un baobab in Africa la giustizia faceva il suo corso, condannando i colpevoli e assolvendo gli innocenti. Da questa pianta secolare - baobab in senegalese è «l’albero dai mille anni» - si ricavano fibre, tinture e perfino carburante. Ma fino a due anni fa, nessuno poteva immaginare che in Italia, alla periferia di Milano, da quest’albero magico, sarebbe germogliato un frutto di cuoio, un pallone e una squadra di calcio: la Baobab. Una formazione unica, quanto la Liberi Nantes (la squadra dei “rifugiati” di cui
Avvenire, ha parlato nel dicembre scorso), la Baobab è composta interamente da giovani calciatori senegalesi. Una rosa di trenta ragazzi, guidati dai “mister” Bamba e Diallo, uniti dalla sana passione per il calcio e dalla voglia di incidere in una nuova realtà, in cui sono stati catapultati e che troppo spesso relega gli extracomunitari in un quotidiano da cittadini di Serie B. Per sfuggire a questo triste destino, si sono messi a correre più forte con un pallone tra i piedi, a seminare e battere tutti gli avversari che hanno incontrato in quelle prime partite “clandestine”, al Parco Nord. Presto, lì tutti parlavano di quella «straordinaria squadra degli invincibili senegalesi». Così, il 4 aprile del 2009, con l’assist generoso dell’Associazione Altropallone e del Comune di Cinisello Balsamo, è nata ufficialmente la Baobab. Molto più che una semplice squadra di calcio, tra le tante del vasto hinterland milanese, questa formazione è una onlus culturale e sportiva, diventata un punto di riferimento per i tanti giovani africani sbarcati nel nostro Paese. «Dopo cinque anni di partite improvvisate al Parco Nord, a Cinisello ci hanno dato questa grande opportunità. Così siamo potuti diventare una squadra a tutti gli effetti, iscritta al campionato Csi che abbiamo subito vinto», racconta orgoglioso il presidente della Baobab, Magatte Gueye, detto Max. È lui il patron di un gruppo pieno di talenti dell’ultimo calcio vero, quello di strada. Una rosa che in amichevole lo scorso anno ha persino sconfitto la Primavera del Monza 2-1 («calcio professionistico», sottolinea fiero Max) e che si arricchisce continuamente con l’arrivo di emigranti da Dakar o senegalesi provenienti dalla vicina Francia in cerca di una terra promessa che spesso però si rivelerà un triste miraggio. Specie per quelli che tra di loro sognavano di sfondare nella nostra ingannevole “Repubblica del pallone”. «Molti ragazzi che avevano militato nella Serie A del Senegal – spiega Max Gueye – spesso sono arrivati qui attratti da grandi promesse fattegli da procuratori che poi si sono dimostrati dei cialtroni: una volta fallito il provino d’ingresso in un grande club quelli li hanno subito abbandonati».Un’esperienza amara che Amadou ha vissuto sulla sua pelle, rischiando di perdersi per sempre, fino a quando la Baobab non l’ha accolto a braccia aperte. «Da noi ormai arrivano giovani su segnalazione dell’ambasciata di Dakar. Con il calcio offriamo un’opportunità d’aggregazione, ma ci occupiamo anche di trovargli un alloggio, altrimenti non avrebbero neppure un tetto sotto il quale ripararsi. E gli inverni italiani non sono certo quelli miti della nostra terra». Un tetto e poi un pallone per ricominciare a pensare a un futuro. Non tutti sono dei campioni come il gioiellino della Fiorentina Babacar che prima di finire nel club viola e debuttare in Serie A, per un periodo si è esibito nelle sfide a sorpresa dei pionieri della Baobab. «Da allora, tante cose sono cambiate e in meglio. Ora a Cinisello abbiamo il campo di via Sardegna - quartiere Crocetta - in cui possiamo allenarci regolarmente. E per le partite ufficiali veniamo ospitati allo stadio della Cinisellese». Nella formazione, che ha il suo largo seguito di tifosi nel Comune alle porte di Milano, militano anche due “stranieri”. «Sono un ragazzo del Togo e un camerunense – dice sorridendo il presidente Gueye – . Due africani come noi, ma se degli italiani o dei ragazzi di qualsiasi nazionalità volessero entrare a far parte della Baobab, siamo pronti ad accoglierli. Del resto questa squadra è nata proprio con l’intento di azzerare ogni forma di discriminazione razziale e per migliorare la conoscenza, l’aiuto, la solidarietà con i nostri fratelli dell’Africa, dell’Italia e del mondo tutto. In questo il Senegal credo che possa insegnare molto a tanti, visto che in cinquant’anni di storia della nostra repubblica, all’interno di una popolazione composta per il 95% da musulmani e il restante 5% da cristiani, non ci sono mai stati problemi di intolleranza. Un esempio per tutti: il nostro primo Presidente, il poeta Léopold Sédar Senghor, era un cristiano di colore sposato a una donna bianca francese». Il calcio come «rispetto delle regole» e come «deterrente al razzismo» ha funzionato, anche se le provocazioni non mancano mai. «Pochi casi e per fortuna isolati. Tipo una volta, un giocatore avversario che ha detto a un nostro ragazzo che stava battendo un fallo laterale: “Negro sbrigati, non perdere tempo...”. Il nostro sentendosi offeso, stizzito ha calciato la palla in tribuna e l’arbitro l’ha espulso. Ma sono situazioni che sono servite a temprare lo spirito dei nostri calciatori, a renderli più forti ogni qual volta riescono a mantenere la calma e ad essere superiori a questi atteggiamenti che sono soltanto il frutto dell’ignoranza. Perché non esistono differenze tra gli uomini, soprattutto nello sport». Il baobab è «l’albero della fratellanza» che Max e i suoi ragazzi hanno piantato per sempre su un campo di calcio. E adesso nelle primavere che verranno aspettano nuovi frutti. «Alla fine di questo torneo Csi ci piacerebbe iscriverci a un regolare campionato della Figc. Il nostro grande sogno sarebbe partire dalla Terza categoria per arrivare in cinque anni alla Serie D. I mezzi tecnici ci sono e la qualità tecnica dei nostri ragazzi è sotto gli occhi di tutti, ma quello che manca sono i fondi. I rimborsi spese non bastano mai e solo con quelli non potremo trattenere a lungo i giocatori migliori. Ma la Baobab con l’amore e l’impegno di tutti riuscirà ad andare avanti».