venerdì 27 ottobre 2017
Torna in edizione italiana il libro di Marija Gimbutas che mezzo secolo fa segnò una svolta decisiva nello studio dell'archeologia del neolitico
L'archeologa lituana Marija Gimbutas

L'archeologa lituana Marija Gimbutas

COMMENTA E CONDIVIDI

Nel 1963, a quarantadue anni, Marija Biruté Alseikaté Gimbutas scrive I Balti, un libro chiave, dopo The Prehistory of Eastern Europe (1956), la prima monografia dove esamina tutte le ricerche archeologiche fatte dal Baltico al Caucaso settentrionale, quasi sconosciute al di là della Cortina di ferro. È il libro - ora edito da Medusa - che la rivela, fondamentale sotto tutti gli aspetti, perché ci fa capire ragioni e metodo di questa straordinaria studiosa lituana, eminente nei campi dell’indoeuropeistica, dell’archeologia e della storia delle religioni, emigrata in America nel 1949, dopo la definitiva occupazione russa. Presentandone l’archeologia come autobiografia, Martino Doni indica felicemente al suo fondo l’«inesprimibile poesia dell’origine». Riguarda l’impulso irrefrenabile che la spinge e la guida per tutta la vita facendole unire tutti gli strumenti scientifici in una investigazione senza pari.

La Gimbutas sfida il buio della preistoria dando una parvenza alle popolazioni pre e protoindoeuropee (dal Paleolitico superiore 30.000 a.C. all’Età del ferro fino a metà del I millennio a. C.), sulla vasta mappa dell’Europa antica, tra Baltico, Irlanda, Asia minore e Creta. La individua studiando tre principali migrazioni di proto indoeuropei originari del nord Caucaso, che chiama Kurgan dalle tombe a tumulo ( 1953-1993: Kurgan, Medusa 2010). Insieme ai nuovi strumenti della geofisica, compresi radiocarbonio e dendrologia, la Gimbutas adopera quelli classici, storici, linguistici, mitologici, etnologici di cui è competentissima. Con essi fonda la sua “archeomitologia”: ricostruzione di culti e miti di civiltà preindoeuropee a struttura matrilineare, devote a una dea-natura di vita-morterigenerazione, su cui si sovrappone conflittualmente il patriarcato. Non si accontenta di esporre risultati di scavo condotti personalmente in Macedonia, Tessaglia e Puglia dal 1967 al 1978.

In una comparazione vertiginosa dei disegni e delle forme riprodotte su migliaia di figuline e manufatti d’ogni sorta rintracciati in aree vastissime e da tempi lontanissimi, decifra i tratti salienti del linguaggio di segni della dea. Nel 1982 pubblica con nome corretto Le dee e gli dei dell’antica Europa( 1974); nel 1989 Il linguaggio della dea, prefazione di Joseph Campbell, stampato da Mario Spagnol nel 1990; nel 1991 La civilizzazione delle dee, e postumo (1999) Le dee viventi (Medusa, 2005). La precede una letteratura tanto affascinante quanto derisa e osteggiata delle antiche testimonianze, a partire dal monumentale Il matriarcato di Bachofen (1861) che influenza Nietzsche, Marx, Engels, Freud, Jung, fino alla magnifica ossessione della Dea Bianca di Robert Graves (1948). I movimenti di liberazione, il femminismo, rendono la Gimbutas una figura di culto. Ciò che la Gimbutas riscontra, è una “gilania”: l’equilibrio tra i sessi nelle società matrilineari, l’assenza di belligeranza a scopo di offesa e conquista, nei millenni in cui si sono sviluppate.

I Balti sono un vasto affresco di patria e matria, pennellato con robusti tratti: una di quelle antiche mappe dove terre mari monti fiumi sono punteggiati di nomi e simboli, dettagli storici e mitici, allegorie e frecce colorate: un tentativo di riassumere a colpo d’occhio diacronie di fonti e aneddoti i più disparati a zig zag tra dati statistici, racconti favolosi, ricordi personali, testimonianze remote e recenti, reperti di scavi, analisi linguistiche, comparazioni mitico- folcloriche. Sono una geografia del sacro nel quale la Gimbutas si è fondata e che continuerà a sondare e giustificare con le armi della scienza, mossa da una conoscenza intuitiva, a sua volta frutto di un’esperienza primaria potente e indelebile: la Lituania come Eden. Le foreste «formate di alberi frondosi, querce, tigli, aceri, olmi, pioppi, carpini, betulle, frassini, noccioli, salici» erano popolate di «lepri, scoiattoli, tassi, martore, castori, linci, orsi, lupi, cinghiali, buoi selvatici, bisonti, cavalli selvaggi e alci», galli, pernici, anatre selvatiche, oche, cicogne, allodole, usignoli, cuculi; i laghi erano pieni di pesci. Pastori, cacciatori, contadini, in armonia con il creato ubbidivano al ritmo delle stagioni.

Niente turbava il silenzio sacro di colline e foreste. Solo i canti delle fatiche campestri. «I Balti cantavano senza posa». Il cantare era necessario come il respirare. Ai più di cinquecentomila canti degli archivi, contribuisce anche Marija sedicenne, che ne raccoglie cinquemila, sulle orme della cultura romantica e paterna. La morte del padre quando ha sedici anni spezza l’incanto. Poiché «ciò che non è espresso tende a non esistere», bisogna raccontarlo e mostrarlo. Se i popoli scompaiono restano i fiumi e i loro nomi, e di lì si può cominciare, agganciandosi ad altri nomi, a tracce sotterranee come le tombe, aeree e sonore come i canti, ripetute come le stagioni e i loro riti ancora fermi alla preistoria. Ecco le divinità arcaiche che si fondono con quelle indoeuropee: Dievas cielo come in sanscrito, Saule sole femmina che assomiglia al vedico Surya e al greco Helios; ecco Auseklis lettone, lituana Ausrine, sorelle di Ushas, le aurore indiane soglie del sole; ecco il fuoco inestinguibile come per gli indoiranici, ecco il culto dei morti, che ne indica la terribile fusione con il mondo dei vivi. In questo libro ricchissimo, vivo e germinante, una scia di commerci e miti lega i Balti all’Adriatico, dove le Fedriadi figlie del sole piansero lacrime d’ambra, per il fratello Fetonte. La scia è rimasta a Verucchio, fra i gioielli e i troni meravigliosi, delle tessitrici villanoviane.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: