Le curve in telemark, i salti, gli scarti, l’ebbrezza delle discese. Il rischio, le onde di neve, l’aria di ghiaccio, il ritmo accelerato del cuore. Prima: l’amicizia, il silenzio dei rifugi, il fuoco di notte, la passione, le ascese - e zampilli di sudore e pelli sotto gli sci, scalata lenta prima del volo, in basso, a perdifiato. Di un mondo - piccolo ma non così piccolo - testimonia e scrive Alberto Sciamplicotti. Alpinista, fotografo e video maker, una vita dedicata ai viaggi e al racconto, interprete innamorato di disciplina bella e pericolosa: lo scialpinismo. I vagabondi delle nevi è il suo ultimo libro. Narrazione di viaggio, cult per gli appassionati. Anche viatico per interrogarsi. Sport o stile di vita? «Sciare è solo un aspetto della voglia di vedere e scoprire», spiega l’autore. L’amore per lo scialpinismo gli viene da lontano, da un’infanzia che è stata come un’età dell’oro. «I miei genitori amavano leggere e per noi figli, ogni sera, c’era un nuovo racconto, una nuova storia. La fantasia andava di pari passo con l’immaginazione». Alla tv dei ragazzi passava un programma che è bello ricordare: “Avventura”. Erano immagini di «esplorazioni in montagna, filmati di discese in canoa o di ascensioni alpinistiche. E poi viaggi in Africa, Nuova Guinea o Sud America». L’altrove, insomma. Comunque, ogni volta, fucina di emozioni e di curiosità. «È stato tutto questo che ha messo in moto la voglia di cercare e creare avventure. La montagna, ma anche il mare, sono stati i primi luoghi dove potere vivere realmente questi sogni». Di anima mediterranea, romano di nascita - un papà fotografo d’agenzia al tempo della dolce vita, di cui ancora si ricorda lo scatto della cerimonia dell’incoronazione di Giovanni XXIII - Sciamplicotti, seguendo la sua curiosità, ha portato i suoi sci su nevi che non ti aspetti. In Turchia, nella catena inesplorata del Kaçkar, sui Monti Zagros, in Iran, tra carovane e rotte del Petrolio. Tra l’Hispar e il Biafo in Karakorum, in Groenlandia, oltre il Circolo Polare Artico, alle isole Svalbard. Dopo le montagne dell’Armenia ora vorrebbe portare i sui sci su quelle dell’Albania e della Macedonia. Quegli stessi sci che prima ancora hanno scivolato sulla catena dei Lefka Öri e sul Monte Ida. Profumo di mito nell’isola in cui Zeus si nascose per sfuggire all’antropofagia del padre Kronos. I vagabondi delle nevi è il resoconto di una spedizione tra cielo, montagne e spiagge cui si arriva sciando, nell’isola da cui Teseo rapì Arianna. Sempre uguale, sempre diversa, è l’emozione che fa scaturire l’idea del viaggio, impossibile indicare un’esperienza migliore di un’altra: «Arrivare su una vetta da dove il panorama finalmente si apre e lascia scorgere nuovi orizzonti, altre montagne, altre creste e valichi, costituisce da solo già un traguardo: è la possibilità per la mente di aprirsi verso nuove potenziali incognite. La discesa è solo una parte dell’esperienza – ripete Sciamplicotti –. Anche se sì, certo, è meraviglioso incidere nel pendio nevoso una traccia che riesca a interpretare il terreno, le sue variazioni, le sue difficoltà. Credo sia paragonabile a quanto si riesce a provare interpretando un brano musicale». Tutti lo devono sapere: viaggiare e fare turismo non sono espressioni equivalenti. La logica dei record, i numeri, l’economia applicata all’avventura, possono corrompere. Un viaggio, una salita, hanno sì, sempre, un rendiconto, ma quello «lo capisci dentro di te, solo al ritorno che è momento di verifica, dove si prova a capire quanto e come l’esperienza del viaggio, dell’esplorazione, della salita e discesa o della traversata di una montagna, hanno cambiato noi stessi e la nostra visione del mondo». Nelle pagine una polemica sottintesa ritorna: «Anche nel nostro mondo dell’alpinismo l’individuo è al centro di tutto. Tutto è ego e tutto viene fatto per soddisfare le sue pulsioni. E in questo ci siamo dimenticati che noi siamo solo in funzione del nostro rapporto con gli altri. Qualunque cosa intraprendiamo, nel nostro sogno, nella nostra visione, ci deve essere spazio per l’altro». È anche il segreto di questo libro. Denso di gesti reiterati, semplici, addirittura stereotipi: arrivare in camper, salire al rifugio, dormire scomodi, camminare, salire, poi scendere giù volando, all’impazzata, con gli occhi che lacrimano per la velocità. Persino la gioia dell’avventura ultimata è qualcosa che ritorna. Tutto si incendia solo grazie allo slancio poetico, all’accensione del desiderio, al senso di amicizia che fa del viaggio più condiviso quello più bello. «Metti amore in quello che fai», dicono i personaggi, le vite, gli incontri di Alberto Sciamplicotti. Che non si arrabbia nemmeno se gli ricordi che forse, scialpinismo, nell’immaginario dei più, confina con pericolo e incoscienza. Quelli di montagna ci sono abituati. Da fuori è sempre difficile capire motivazioni e senso del rischio. Alberto dice laconico che «solo il superamento delle incognite permette all’uomo di avvicinarsi a comprendere il senso stesso della vita e dell’essere». È così da sempre, del resto, non chiedergli mai di rinunciare. C’è qualcosa da ricercare oltre la linea dell’orizzonte. Lui ha già messo gli sci ai piedi e sta provando a inseguire.