Il «mitico» Bar Margherita, in realtà, non esiste. O meglio: ne sono esistiti d’innumerevoli. «Erano tutti quei bar di una certa provincia italiana degli anni 50, frequentati da un insieme straordinario di sciocchi 'eroi', il cui atteggiamento oggi apparirebbe deplorevole ma che allora attraeva moltissimo i giovani. I quali cercavano d’imitarli investendovi tutta la propria 'creatività', nel più assoluto disimpegno e nel totale disinteresse degli adulti, sperperando così con disinvoltura un’adolescenza spensierata ». L’adolescente protagonista che frequenta questo Bar Margherita viene chiamato «Coso». Ma potrebbe anche chiamarsi Pupi. «Questa non è esattamente la mia storia; ma non c’è dubbio che anche in questo personaggio ci sia molto di me ragazzo – confessa Pupi Avati – Soprattutto per quel cinismo misto alla gioiosità che è tipico di una certa adolescenza. E che ha messo insieme una stagione nella vita di quelli della mia generazione». Gli amici del Bar Margherita, insomma – dal 3 aprile in 300 cinema – è il divertito 'amarcord' del grande regista, a confronto coi 'miti' della propria giovinezza incontrati e ammirati nel bar di via Saragozza, tra le vie della Bologna anni 50. Testimone-alter ego di Pupi è «Coso» (cioè Taddeo, interpretato da Pierpaolo Zizzi), un diciottenne che sogna di essere ammesso tra i mitici frequentatori del Bar: il misterioso e carismatico Al (Diego Abatantuono), il fantasioso Bep (Neri Marcorè) innamorato dell’entraineuse Marcella (Laura Chiatti), il cantante Gian (Fabio De Luigi), il ladruncolo sessuofobo Manuelo (Luigi Lo Cascio); il tutto sotto il paziente sguardo tollerante della mamma (Katia Ricciarelli) e del nonno (Gianni Cavina), innamorato della prosperosa maestra di pianoforte (Luisa Ranieri). «Per raccogliere questo gruppo eterogeneo ho messo insieme ricordi miei e dei miei amici, ripercorrendoli con sguardo divertito, leggero, collegato a certe mie commedie sentimentali per la tv, come Jazz Band. Ma sempre attraverso i miei occhi di oggi. Gli amici del Bar Margherita, insomma – spiega Avati – è la storia di un dicottenne. Ma raccontata da un settantenne». Al centro del film, fa notare il regista, c’è pro- prio l’«essere giovani» di allora, così diverso dall’esserlo oggi. «Dalla metà degli anni 60 i giovani sono diventati gli interlocutori numero uno della politica e del commercio. Cinquant’anni fa, invece, i ragazzi vivevano nell’indifferenza totale degli adulti, non contavano assolutamente nulla. Così potevano compiere errori, bizzarrie, stravaganze; trovare un’identità, individuare la propria strada. Mentre oggi, apparentemente messi al centro di tutto, si sentono ripetere continuamente che non hanno prospettive, che per loro non c’è futuro». In un cinema italiano che «al 99,99 per cento parla del presente – considera inoltre il regista – qualcuno dovrà pur fare i conti col passato. Così oggi mi sento un po’ la 'vestale' del tempo che è stato. E il ci confronto coll’oggi può aiutarci capire meglio noi stessi».