Raul Gabriel, progetto di altare - Courtesy dell’artista
Identificare il termine sintesi con una categoria statica è un rischio agevolato dalla nostra tentazione di individuare dei punti fermi cui ancorarci per limitare le fatiche derivanti dalla gestione del libero arbitrio. Questa interpretazione dà corpo al fatidico e del tutto ipotetico punto d’arrivo di composizione ordinata e riassuntiva della complessità, di cui la sintesi rappresenta l’agognato packaging finale. Ho fatto una sintesi, cioè sono riuscito a trovare una ridefinizione compressa e schematica di istanze articolate e dispersive, non di rado confliggenti, che impedivano un prodotto finito e soprattutto contingentabile. Che siano pensiero, forme, gesti o eventi non importa, il meccanismo è identico. Questa, ne sono convinto, è l’accezione più diffusa della sintesi.
Io la penso in modo del tutto opposto. Quel prodotto finito, quella idea di risoluzione che finalmente se ne sta buona lì in un angolo, non è sintesi. È un surrogato che confonde la riflessione per un comodino abbastanza stabile per appoggiarci le cose. Un artefatto che mi riporta in modo preciso dentro le tematiche dell’arte e del sacro, in cui spesso assistiamo a esercizi di stile venduti per significato, del tutto intercambiabili con un qualsiasi tipo di arredo, da supermercato o design non fa differenza. Inutile dichiarare concetti di ogni sorta quando la forma proposta come sintesi è in realtà l’assemblaggio di un armamentario privo di spinta vitale.
Sintesi è tutt’altro. Sintesi è il concretizzarsi più radicale di una dinamica generativa caratterizzata da un costante flusso reciproco di espansione eccentrica e condensazione concentrica. È espansiva in quanto produce nuove entità a partire da elementi preesistenti e la complicità di eventuali catalizzatori. Attraverso il processo di sintesi l’esistente si espande in forme nuove e al tempo stesso profondamente legate a ciò che le precede, da cui traggono nutrimento ma, elemento fondamentale, da cui si differenziano in modo definitivo.
La sintesi in questa accezione ha un valore quasi magico, sempre stupefacente e destabilizzante; basti pensare a fenomeni come la fotosintesi clorofilliana che, utilizzando prodotti di scarto dell’uomo come l’anidride carbonica, genera il proprio nutrimento restituendo ossigeno, prezioso per proprio per l’uomo. Il dato della circolarità è chiaro, come anche quello della trasformazione continua. L’aspetto concentrico della sintesi non si deve intendere come riduttivo e semplificativo. È una sorta di fusione che sacrifica elementi corollari. Questo è già evidente nella accezione hegeliana in cui la sintesi che segue a tesi e antitesi consiste in un superamento che risolve le opposizioni generando una terza entità: non una replicazione delle due precedenti né la loro pedissequa somma algebrica. L’unità formale che deriva da questo processo è dialogica, dinamica, evolutiva: mai statica.
Tornando al sacro, se anche tutti i percorsi formali e simbolici che lo caratterizzano dovrebbero essere permeati da una elaborazione simbolica di questo tipo, ve ne è uno che riassume in sé tutte le tematiche al riguardo. Neanche a dirlo, questo è l’altare, della cui fecondità non finisco mai di stupirmi. L’altare è la rappresentazione fenomenologica perfetta della sintesi. O così, perlomeno, dovrebbe essere. In realtà molto spesso viene confuso con una stagnazione monolitica o disgregata che di sintetico, dialogico, vitale, non ha nulla. Mi trovo a confrontarmi spesso con una mentalità secondo cui l’altare, che significa fede, che significa idea di relazione con il significato, dovrebbe essere la monade risolutiva e impenetrabile in cui trionfa quella che chiamerei fede dal carattere euclideo, una fede rigorosamente ortogonale e profondamente immobile.
È sorprendente trovarsi a discutere nel 2021 di concetti di statica che forse non erano presi come assoluti neanche da un Neanderthal. Oggi abbiamo la fisica quantistica, le matematiche non euclidee da almeno un paio di secoli di svolta gaussiana, abbiamo in definitiva la perfetta constatazione di come stasi e stabilità siano termini dinamici. Eppure, niente. La tentazione di fissare ogni cosa secondo parametri del tutto soggettivi e funzionali a una esistenza da non mettere mai in discussione, soprattutto nelle proprie acquisizioni di posizione, impedisce di comprendere e accettare lo stesso concetto di dinamica, trasformando l’idea di altare in un evento irreale, distante, sostanzialmente antiumano. Di fatto ideologico, di quella idea di cui si nutre con voracità la mentalità accademica.
Il processo sintetico di cui l’altare dovrebbe essere simbolo è la dinamica stessa del percorso liturgico, architettonico e assembleare della chiesa. Voglio spingermi oltre in questo parallelo tra sintesi e altare. Entrambi non sono monadi, ma non basta. Allo stesso modo non sono organismi analitici, articolati in contrappunti il cui dinamismo disarticola l’unitarietà che dovrebbe caratterizzarli. Sintesi-altare non sono sinonimi di semplicità, stasi, giustapposizioni analitiche. Sono un processo sempre misterioso che fa della complessità il corpo unico di un evento originale.
Raul Gabriel, il progetto dell'altare con la struttura generativa e le linee di forza della forma - Courtesy dell’artista
In questi mesi sto lavorando al disegno di un altare che appare sbilanciato ma in realtà è perfettamente solido, centrato, simmetrico. La struttura è ottenuta dalla trasformazione dell’impianto della chiesa per il quale è pensato (un edificio che si presenta come cubo ruotato di 45 gradi) attraverso una torsione che arriva al quadrato “risolto” della mensa che abbraccia l’ara. Una forma fluida, complessa: sintetica. Questo rappresenta perfettamente quella che definisco “solidità dinamica”. Un altare assolutamente stabile anche se girandogli intorno sembra quasi sbilanciarsi? Ma se il “succo” della cristianità non fosse sbilanciato verso di noi, per noi sarebbe come morto.
La sintesi e l’altare, quindi, portano con sé anche un aspetto di meraviglia. Pur generati inevitabilmente all’interno di un contesto, non provengono da un metodo applicato in maniera meccanica. Ogni sintesi, così come ogni altare, ha il suo metodo specifico, non ripetibile, prezioso. Ogni sintesi, così come ogni altare, deve portare in sé il più grande dono e la più grande responsabilità che abbiamo in eredità dalla nostra storia e nella nostra storia. Quel dono è l’identità, la nostra, non quella di altri, lo scrigno dove possiamo raccogliere tutti i tesori e tutte le nefandezze possibili a seconda della sintesi che operiamo sulla nostra giornata. Quella che ha un inizio e che non avrà più fine.