venerdì 8 dicembre 2017
Il 10 dicembre 1987 moriva il grande autore e protagonista di “Azzurro tenebra”, romanzo unico sul pallone italico. Fu amico di Brera, che fino alla loro rottura lo considerava “il mio Nobel privato”
Lo scrittore Giovanni Arpino scomparso trent'anni fa

Lo scrittore Giovanni Arpino scomparso trent'anni fa

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Nell’Italia spezzata, divisa anche nello sport, tra chi tifava per Bartali o Coppi, Mazzola o Rivera, c’è stato un tempo in cui anche nella “scrittura calcistica” si creò un dualismo: tra i lettori-tifosi di Gianni Brera e quelli di Giovanni Arpino. Stiamo parlando di piccole frange estremissime, alternative ovviamente. Brera e Arpino sono stati due Fratelli italiani che si scambiavano oneri e onori: «Arpino è il mio Nobel privato» diceva ammirato l’arcimatto di San Zenone Po, e il visionario di Bra ricambiava dandogli del «maestro» ed elevandolo al rango di «Grangiuàn». S’erano tanto amati, e come tutti i grandi amori che finiscono spesso sconfinano nell’odio cieco. Brera e Arpino, nemici giurati dopo una puntata della Domenica sportiva. Il bomber della Juventus Roberto Bettega fu l’oggetto involontario della disfida, chiusa dalla sentenza di Arpino che bollò Brera di «stalinismo critico». Da allora Un’ombra ben presto sarai (titolo sorianesco) fu anche il destino reciproco di due mattatori liberi, anche della pagina sportiva. Alzarono reciproche barriere di indifferenza (si ignoravano pur lavorando nella stessa redazione del “Giornale”) durata fino alla morte di Arpino, avvenuta trent’anni fa, il 10 dicembre 1987.

Aveva solo sessant’anni (ricorrono anche i 90 della nascita), quando svanì, come dentro una nuvola di fumo delle sue sigarette. Il sigaro toscano di Brera rimase accesso, mentre ticchettava sulla macchina da scrivere, ancora un lustro. Il Grangiuàn se ne andò anche lui una notte di dicembre (il 19) del 1992. Negli anni tormentati, da silenti della tribuna stampa degli stadi, Giacinto Facchetti recitò il ruolo scomodo dell’io tra di voi, riconoscente ad entrambi per la narrazione epica delle sue gesta (Giacinto “Magno”) ma in particolar modo ad Arpino. «Non leggevo romanzi prima di conoscere Arpino. Ho cominciato dai suoi e sono andato avanti con gli altri, italiani, stranieri...», raccontava Facchetti, uno dei pochi “salvati” (con Bearzot e Zoff) tra i sommersi della sciagurata spedizione di Germania 1974. L’infausto Mondiale della Nazionale di Ferruccio Valcareggi che ispirò ad Arpino, inviato della “Stampa”, pezzi salaci secondo il suo stile che poi andarono a comporre i capitoli del più ra- ro e originale romanzo sul calcio mai apparso nella nostra letteratura. Quello straordinario affresco, quanto mai attuale – specie nell’ora della sventura del calcio italiano – fin dal titolo che è Azzurro tenebra . La prima edizione, Einaudi (in copertina Facchetti in “fuga”), uscì nell’ottobre del ’77, tre anni dopo l’eliminazione del calcio azzurro in Germania. E per renderci conto del valore assoluto dell’opera ambientata nel già allora folle mondo dei mutandieri di campo occorre rileggere lo splendido ritratto critico di Massimo Raffaeli. «Fondale del romanzo di Arpino sono i verdi smalti della Bassa Baviera e del Baden-Württemberg. Due sono gli epicentri: il Neckarstadion di Stoccarda, a un passo dal fiume che fu di Hegel e dei poeti romantici, e il ritiro di Ludwigsburg che ospita la Nazionale italiana, un castello sperduto nei boschi in cui bruciò nell’orgia wagneriana, il sogno decadente di Ludwig, Luigi II di Baviera», scrive Raffaeli nel saggioLa poetica del catenaccio (Italic).

Su quel decadentismo agiografico si staglia anche la parabola discendente del calcio italico, vissuta in prima persona dal protagonista del romanzo, “Arp”, e il suo fido scudiero Bibì, al secolo il collega della “Stampa” Bruno Bernardi, «un fratello, un giovane, un compagno di diecimila viaggi, tremila partite, milioni di discussioni ». Azzurro tenebra è un quadro impietoso di tutto il “sistema”. A cominciare dalla categoria stessa dei giornalisti sportivi in cui, Arp, juventino di fede ma devoto al mito del Grande Torino, era entrato a far parte. E all’interno della bolgia redazionale in trasferta, distingue kantianamente tra le «Jene», i sobillatori cinici che alimentano il mito calcistico; e le «Belle gioie», razza infima di ipocriti “costruttori di alibi” che garantiscono la proliferazione o quanto meno la conservazione del sistema stesso. L’irregolarissimo autore di romanzi esemplari pubblicati nel decennio d’oro 1959-1969, come La suora giovane (1959), Una nuvola d’ira (’62) L’ombra delle colline(’64), Un’anima persa (’66) e Il buio e il miele, è passato nell’universo calcio con la stessa leggera profondità del suo fratello argentino, Osvaldo Soriano. Un’affinità elettiva scaturita dalla recensione di Triste solitario y final che Arpino pubblicò sulla “Stampa” il 29 novembre 1974 lamentando: «È da giugno che il libro si trova (o dovrebbe trovarsi) negli scaffali degli “economici”. Ma non ho letto un rigo su questa storia eccezionale, veloce come un fumetto, esilarante, virilistica e amara. Soriano, giornalista sportivo e scrittore privo di tracce ereditarie, forse non riuscirà a ripetersi. Ma certo, nel filone eroico o elegiaco o di denuncia sudamericano, lui rappresenta il lato ariostesco: indispensabile pimento della vita».

Quando Soriano, esule forzato per scampare all’ira funesta del regime totalitario di Videla, lesse quell’articolo all’ombra del suo rifugio di Bruxelles, ringraziò commosso il suo nuovo amico Giovanni. «Desidero dirle innanzitutto che nessuna recensione fra quelle apparse sinora nei Paesi in cui è stato pubblicato Triste solitario y final mi ha commosso così tanto». Come Facchetti, anche Soriano cominciò a divorare tutti i romanzi di Arpino dichiarando ammirato in una delle lettere raccolte nel saggio di Massimo Novelli, Bracconieri di storie (Spoon River). «Querido Giovanni, nel leggerti, sento che i miei personaggi sono di una banalità che sfiora la stupidità. Lo stesso mi capita di fronte a Fitzgerald a Nathanael West o a Caldwell». Era la vigilia di Natale del ’77 quando Arpino e Soriano, dopo l’inizio di un intenso epistolario, si abbracciarono per la prima volta alla stazione di Liegi e assieme andarono a prendere posto nella tribuna di legno dello stadio Salessin per assistere a un noiosissimo Belgio-Italia. Una giornata riscaldata da soste ai caffè e da quell’Azzurro tenebra autografato. Il libro portato in dono al suo amato Osvaldo, il quale, a differenza dei romanzi che lesse gustandoli come tanti sorsi di mate, trovò Azzurro assai ostico, al punto di arrivare alla resa. «Non c’è verso, anche con l’aiuto del dizionario», scrive Soriano dal nuovo esilio parigino alla fine dell’estate del ’78, quella in cui Arpino era reduce dal Mundial d’Argentina ed era iniziata per entrambi la fase di disinnomaramento da Fútbol. «Sono stato a vedere il calcio a Buenos Aires: è talmente brutto che bisogna cambiargli nome, inventare una definizione nuova per ventidue tipi, una palla e due porte », scrive Soriano che confessava la crisi da pagina bianca e Arpino lo rincuorava: «Lavora, sii felice anche se il mondo non vuole permetterlo... Il mondo morirà, la scrittura morirà, ma dobbiamo resistere e fare». Arpino avrebbe fatto fino all’ultimo giorno. Al discepolo della redazione sportiva del “Giornale”, Tony Damascelli, lo salutò dal suo letto di morte con un inno di resistenza: «Mai una lacrima, rischia di annacquare l’inchiostro».

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