I dieci punti del Manifesto in difesa della razza
Il 15 luglio 1938, ottant’anni fa, la pubblicazione del “Manifesto della razza” inaugurò in Italia l’antisemitismo di Stato. Allineandosi alla Germania, Mussolini scelse di adottare provvedimenti di discriminazione razziale, che aprirono le porte alla futura persecuzione. Prima di tutto, occorre domandarsi: il Duce era personalmente nemico degli ebrei?
La lunga e pacifica coabitazione, nei primi anni del regime, tra fascisti e comunità israelitica nazionale, nonché la circostanza – tutt’altro che priva di significato anche politico – che il dittatore fu per anni succubo della sua amante e consigliera Margherita Sarfatti, di origini giudaiche, ha indotto taluni a ritenere che le leggi introdotte nel 1938 fossero più dettate da esigenze di realpolitik (in sostanza, per compiacere Hitler), che non ispirate a intimi convincimenti personali.
In realtà, Mussolini condivideva gli stereotipi, largamente circolanti in tutte le società occidentali dell’epoca, sulla pericolosità degli ebrei, in quanto tali, e il suo animo era ricoperto da una fitta vernice di pregiudizio razziale, in senso lato. Le cause remote dell’acuirsi del contrasto tra ebrei italiani e fascismo debbono farsi risalire addirittura alla fine degli anni Venti. Fu proprio la Sarfatti, a quell’epoca, a individuare nei circoli sionisti presenti nella Penisola un focolaio di antifascismo e una sorgente di incomprensione. Il suo ragionamento era molto semplice, e certo condiviso dal Duce: i sostenitori, in Italia, della costruzione dello Stato di Israele privilegiavano le ragioni della propria causa “nazionale”, rispetto alla lealtà verso la Patria fascista. Dunque, si trattava di “rinnegati”. Nonostante una tale reciproca diffidenza, se non una vera e propria ostilità, tra gli esponenti sionisti e il regime, covasse sotto la cenere, fino alla metà degli anni Trenta i rapporti tra il dittatore e la comunità israelitica furono, almeno ufficialmente, corretti.
Ma, già nel 1933-34, l’antisemitismo, dentro la stampa e il Partito nazionale fascista, cessò di rappresentare una posizione marginale, limitata a pochi forsennati, come Giovanni Preziosi, direttore del mensile “La vita italiana”. Cominciarono a profilarsi i fautori di una campagna di sistematica aggressione nei riguardi della componente ebraica della società italiana. I più agguerriti esponenti di questa corrente erano Telesio Interlandi, direttore del quotidiano romano “Il Tevere”, e Roberto Farinacci, capofila dell’intransigentismo nonché fondatore e proprietario del suo organo di stampa, “Il Regime Fascista”.
Farinacci, dalle colonne del giornale, nel maggio del 1933, dopo aver reiterato violente accuse contro l’internazionale e la finanza ebraica, giunse ad auspicare l’introduzione in Italia di un “numero chiuso” per gli israeliti. Mussolini, da parte sua, mentre da un lato condannava ancora ufficialmente le teorie hitleriane sulla superiorità della “razza ariana”, dall’altro tollerava questi attacchi. Ma, in breve tempo, non si sarebbe più limitato ad osservarli: ne avrebbe incoraggiato l’intensificazione e l’estensione. Probabilmente, ragioni di prudenza, sulle prime, gli consigliarono di circoscrivere il “tiro” e di autorizzare soltanto Farinacci, Interlandi, Preziosi e pochi altri estremisti, a condurre in proprio la campagna antisemita a mezzo stampa.
La posizione di Mussolini cominciò ad evolversi soltanto nella seconda metà del 1936, quando iniziò a vedere nella politica sanzionista decretata dalla Lega di Ginevra contro l’avventura italiana in Etiopia, l’espressione irriducibilmente ostile dell’internazionale ebraica. Una sorta di “spectre”, che aveva una quinta colonna, tra gli ebrei antifascisti presenti in Italia, o tra gli esuli, come Carlo Rosselli, assassinato, insieme al fratello Nello, in Francia, nel giugno del 1937. Si registrò in tal modo l’ulteriore acuirsi dei toni con cui Farinacci, dal “Regime Fascista”, non si limitò più a dirigere il fuoco contro i sionisti italiani, ma, più in generale, contro tutti gli ebrei che vivevano nella Penisola. Il 12 settembre 1936, un articolo di fondo non firmato, e dunque attribuibile al ras di Cremona, dal titolo “Una tremenda requisitoria”, prese lo spunto da un discorso pronunciato, al congresso nazionalsocialista di Norimberga, da Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda di Hitler. Questi aveva denunciato come nella Francia del Fronte Popolare e nella Spagna sconvolta dalla guerra civile, tutti i capi del “sovversivismo” fossero ebrei. Farinacci andò dunque all’affondo: «Dobbiamo confessare che in Italia gli ebrei, che sono un’infima minoranza, se hanno brigato in mille modi per accaparrarsi posti nella finanza, nella economia e nella scuola, non hanno svolto opera di resistenza alla nostra marcia rivoluzionaria. Ma essi tengono purtroppo un atteggiamento passivo che può suscitare qualche sospetto. Perché non dimostrano in modo tangibile il proposito di dividere la loro responsabilità da tutti gli ebrei del mondo, che mirano ad un solo scopo: al trionfo dell’internazionale ebraica? Perché non sono ancora insorti contro i loro correligionari, autori di stragi, distruttori di chiese, seminatori di odî, sterminatori audaci e malvagi di cristiani?».
Già nel corso del 1937, Mussolini decise di attuare il “giro di vite”, con l’emanazione di una legislazione razzista. In tal modo, sulla stampa di regime, si assistette a un crescendo di invettive, e agli emuli italiani di Goebbels fu concesso di dilagare, a briglia sciolta, nella rappresentazione mostrificata del “nemico” per eccellenza. Si introdusse la distinzione tra gli “italiani ebrei” (ossia i lealisti con accertati meriti patriottici, in cima ai quali vi erano gli iscritti al partito) e gli “ebrei italiani”, vale a dire i sionisti e gli antifascisti. In seno alla comunità israelitica venne seminata discordia. Da un lato vi erano le organizzazioni ufficiali che raccoglievano la pluralità di anime e di correnti del giudaismo nazionale. Dall’altra il regime incoraggiò la nascita del filofascista Cire (Comitato degli italiani di religione ebraica), che si prestò a divenire strumento di disarticolazione della comunità. Il Cire chiese infatti di abolire, non solo la stampa israelitica ma anche di sciogliere la Face (Federazione delle associazioni culturali ebraiche) e l’Adei, che raggruppava la componente femminile. Era iniziata la corsa verso il baratro.
<+RIPRODUZ_RIS>