Una scena di «Katyn» di Andrzej Wajda (Reuters)
Tempi difficili per Antigone. Non che abbia mai avuto vita facile, la ragazza nata dalle nozze incestuose tra la regina di Tebe, Giocasta, e suo figlio Edipo, che sale al trono dopo aver ucciso il padre Laio e averne sposato la vedova, che è per l’appunto sua madre. Edipo ignora l’identità di entrambi, è vero, ma questa ignoranza non lo mette al riparo dalla colpa. La peste imperversa in città, per fermare l’epidemia il re si infligge la punizione tremenda dell’accecamento e infine, esiliato, si allontana verso Colono, dove lo attende l’ultima espiazione. Antigone è accanto lui, lo accompagna, ma a Tebe scoppia una guerra che vede contrapposti i figli maschi di Edipo, Eteocle e Polinice, entrambi destinati a morire nel duello decisivo. Al primo, che ha difeso la città, il re Creonte, fratello di Giocasta, stabilisce che sia data sepoltura da eroe, mentre il corpo di Polinice, ritenuto colpevole di tradimento, sarà abbandonato senza onore. A questo punto Antigone esce dall’ombra e diventa protagonista: disobbedisce alle leggi della città, si prende cura del cadavere di Polinice e paga con la morte – una morte scandalosa, perché di nuovo contravviene alle disposizioni dello zio Creonte – la propria fedeltà alle leggi non scritte, espressione di una giustizia più che umana.
La vicenda di Antigone ci è nota nella versione di Sofocle, rappresentata per la prima volta ad Atene nel 442 a.C. Da allora quei 1.353 versi sono stati oggetto di una ricezione straordinariamente ramificata, tant’è vero che in uno studio apparso nel 1984 e subito considerato fondamentale (in Italia è in catalogo da Garzanti) il grande critico letterario George Steiner si riferiva a Le Antigoni , al plurale, per sottolineare una varietà che è già presente nel testo di Sofocle e, prima ancora, nel nome stesso della protagonista: Antigone è colei che è concepita ( gòne ) al posto o in sostituzione di un altro, ma anche contro, in opposizione ( antì). Ed è proprio questa azione di contrasto, finora sostanzialmente accettata nelle diverse interpretazioni e riscritture, a essere messa in discussione negli ultimi tempi. Un accenno in questa direzione si trova, per esempio, in Fare i conti con i classici di Mary Beard (traduzione di Carla Lazzari, Mondadori, pagine 380, euro 25,00). La studiosa brtiannica dimostra scarso entusiasmo nei confronti dell’adeguamento dei tragici al presente. Ne fa le spese, nella fattispecie, una delle più note rivisitazioni moderne dell’Antigone , quella realizzata da Jean Anouilh nella Francia occupata dai nazisti: un copione – ricorda Mary Beard – nel quale la preoccupazione di sfuggire alla censura ottiene l’effetto di rendere ambiguo il significato dell’opera. Pensata come invito alla resistenza, l’Antigone di Anouilh si trovò a essere elogiata anche dalla stampa pétainista, che aveva preso alla lettera il cruento ritorno all’ordine celebrato nel finale.
Molto più circostanziate sono le critiche mosse dal grecista Mauro Bonazzi nel suo Atene, la città inquieta (Einaudi, pagine 250, euro 22,00). Rispetto all’unanimismo che ha finora elevato a modello la figura di Antigone come portatrice di valori universali, secondo Bonazzi sarebbe arrivato il momento di riservare maggiore attenzione alla «tragedia di Creonte», ovvero al tentativo di governare la città mediante un criterio fondato sulla concordia interna e sancito da norme razionalmente concepite. Lo scontro, dunque, non sarebbe tra un’Antigone paladina della libertà e un Creonte oppressore (è il modello fissato dall’adattamento della tragedia firmato da Bertolt Brecht nel 1948), ma tra due diverse concezioni della politica, una ancora legata alla tradizione religiosa e l’altra proiettata su un più secolare progetto di convivenza. Che l’Antigone di Sofocle descriva il contrasto fra due parole ugualmente “capaci di morte”, del resto, era già il tema centrale del saggio con il quale, nel 2007, Massimo Cacciari accompagnava la sua traduzione della tragedia per Einaudi. Da parte sua, anche Piero Boitani nel recentissimo Dieci lezioni sui classici (il Mulino, pagine 266, euro 16,00) invita a non schematizzare eccessivamente i ruoli del dramma, il cui stesso svolgimento tradisce una dolorosa contraddizione fra le intenzioni di Creonte, ormai disposto ad accordare la grazia ad Antigone, e la risoluzione incrollabile della protagonista, il cui suicidio costituisce l’estremo atto di accusa verso l’ingiustizia di cui è vittima.
Il fatto che questi siano tempi difficili per Antigone, però, può anche significare che la vicenda di Antigone resti il paradigma più adatto per misurarsi con la difficoltà e la complessità dei tempi in cui viviamo. Lo dimostra il persistere delle rivisitazioni e delle attualizzazioni, talvolta fortemente ideologiche (è il caso della versione di Valeria Parrella, andata in scena nel 2012, dove in questione non è più la sepoltura di Polinice, ma il “diritto alla morte” che Antigone rivendica per il fratello in coma), ma non di rado sorprendenti per ricchezza e intensità di spunti. Si pensi ad Antigone, una storia africana tratta da Massimo Luconi sul testo di Anouilh e vista l’estate scorsa alla rassegna Pompeii Thearum Mundi, ma anche, prima ancora, al fortunato esperimento di narrazione sociale compiuto atto da Sestante rena Gaudino con il suo Antigone a Scampia (Effigie / Il Primo Amore, 2014). In campo cinematografico, poi, non va trascurato il riferimento alla tragedia che attraversa per intero il sofferto Katyn di Andrzej Wajda (2007), istituendo un parallelismo sempre più stretto fra la mancata sepoltura di Polinice e la sorte dei militari polacchi trucidati dai sovietici nel 1943. A istituire il collegamento, con un espediente che richiama il meccanismo del teatro nel teatro, sono i capelli che una delle protagoniste, la giovane Agnieszka, vende a un’attrice scampata ad Auschwitz: rimasta calva, la donna ha bisogno di una parrucca per interpretare il ruolo di Antigone. Con il denaro ricavato Agnieszka intende edificare una tomba per il fratello, della cui morte è certa nono- l’omertà del regime comunista insediatosi in Polonia.
Il cortocircuito fra l’antica Grecia e i nodi cruciali della storia del Novecento (caratteristico anche di un’altra notevole riscrittura, relativamente poco nota in Italia: Il sangue di Antigone di José Bergamín, nel quale sono evidenti le allusioni alla guerra civile spagnola) non si esaurisce sul piano dell’invenzione poetica e letteraria. Anzi, è uno degli elementi costitutivi dell’interpretazione del testo di Sofocle in sede filosofica. La conferma viene dalla riproposta di un importante volume già apparso nel 2001, Antigone e la filosofia ( Donzelli, pagine XXVIII+372, euro 28,00), nel quale un’antologia ragionata dagli scritti di Hegel, Kierkeegard, Hölderlin, Heidegger e Bultmann si accompagna a una serie di saggi che testimoniano l’ulteriore elaborazione da parte di pensatori come Lacan, Ricoeur, Derrida e Martha Nussbaum. A distanza di oltre quindici anni, il curatore Pietro Montani – professore di Estetica alla Sapienza di Roma – ha avvertito la necessità di intervenire con un nuovo contributo, che integra e in parte corregge l’impostazione iniziale. Nell’Antigone non si incrociano soltanto i piani ella metafisica e della politica, sostiene, ma anche quello, già avvertito da Heidegger e oggi predominante, della tecnica. È la tecnica, infatti, a rendere meravigliosa e tremenda insieme l’opera dell’uomo, come ci ricorda il celebre e molto commentato coro dell’ Antigone . Se non ce ne accorgiamo noi, che viviamo in tempi difficili, chi mai dovrebbe accorgersene?