Salvo, “Paesaggio con rovine” (1984) - / Courtesy Archivio Salvo/Cameraphoto
Mentre l’Italia precipita dentro il portellone di una Renault 4 rossa in via delle Botteghe Oscure e una bomba ferma il tempo alla stazione di Bologna, l’arte aveva già fatto saltare i sigilli di piombo alle finestre e tornava a respirare. Lo strumento della liberazione era quello più antico – 'originario' l’avrebbe definito Gino De Dominicis – la pittura. «Gli anni Ottanta iniziano negli anni Settanta» titola il suo saggio Luca Massimo Barbero nel catalogo della mostra Painting is back da lui curata alle Gallerie d’Italia, a Milano fino al 3 ottobre. Gli Ottanta in pittura sono un decennio breve e sfasato, secondo Barbero, circoscritto all’arco 1978-1983, cinque anni in cui si consuma il falò delle ideologie lungo metri quadri di tela incendiati di colore, senza remore di apparire felici.
Non che la pittura se ne fosse mai andata, «basti citare la fortuna borghesemente popolare di un Renato Guttuso che in quegli anni 'spopola' con i suoi grandi nudi – scrive Barbero –o la continuità con il dopoguerra dei tardi pittori postinformali o astratti che nella loro piena maturità 'riprendono' il pennello: un esempio per tutti Emilio Vedova». Ma questo ritorno della pittura è un «ritorno alla pittura», ossia «un ritorno alla 'felicità del dire', alla libertà e alla capacità rapace di riportare all’interno dell’opera tutta la pittura come contemporanea».
Una esplosione italiana con un fallout internazionale: «Painting is back dunque è il titolo, quasi idiosincrasico nell’utilizzo di una lingua non nazionale, scelto per sottolineare l’effetto trasversale della pittura italiana di quegli anni, all’estero ancor più che in Italia». Barbero esce dalle vischiosità di movimenti e gruppi, traccia un panorama ampio, vitale ed eterogeneo, dove i centri minori di tutta la penisola si scoprono un arcipelago nuove capitali (la Modena tra anni 70 e 80, tra pittura, fotografia e gallerie meriterebbe una mostra da sola). Ripesca figure, come Spoldi o Germanà, uscite dai riflettori e forse non del tutto a torto, e ne lascia fuori altre: discussi nei saggi non trovano riscontro in mostra i fenomeni della 'pittura colta', non così secondari nel dibattito critico su quella renaissance pittorica, o il drappello di artisti romani che si sarebbe poi ritrovato nel Pastificio Cerere.
Ma è evidente che la scelta qui è critica: non si tratta di restituire la fotografia accurata di un momento storico ma di suggerire un’immagine, attivare una narrazione anche di tipo generazionale, e questi pittori mancano agli occhi di Barbero di quell’élan vital che invece caratterizza la selezione radunata in piazza della Scala. Ossia di Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Mimmo Paladino, Nicola De Maria (la Transavanguardia di Bonito Oliva, etichetta che qui viene giustamente rifusa nel calderone), Salvo, Aldo Mondino, Tatafiore, quindi figure altre rispetto alla pratica pittorica come Gino De Dominicis, Luigi Ontani e Mario Merz, e infine i 'maestri' di una generazione precedente come Mario Schifano, vero animale della pittura protagonista di un lungo a solo finale, Franco Angeli, Valerio Adami, Enrico Baj e una outsider come Carol Rama. O ancora il paradosso di un pezzo di videoarte, Il nuotatore (1984), il capolavoro di Studio Azzurro.
Aldo Mondino, “Ritratto” (1986) - / © A.Mondino by Siae 2021/foto P.Vandrasch
È, oggettivamente, un trionfo visivo. Un banchetto per gli occhi dopo il digiuno del concettuale, esperienza da cui arrivano gran parte di questi artisti e che in realtà quasi tutti portano dentro la pittura. Si avverte una fame di forme, di mito, di racconto e finalmente la libertà di poterla appagare. È qualcosa che si registra in modo trasversale: nel 1980 Umberto Eco pubblica Il nome della Rosa, mentre nell’Emilia paranoica di Giovanni Lindo Ferretti emergono i talenti di Pier Vittorio Tondelli e Andrea Pazienza.
Sono anche gli anni di Franco Battiato, che di questa mostra sarebbe la colonna sonora ideale e non solo per via della fascinazione verso il sufismo che lo accosta immediatamente a Mondino. Il musicista catanese infatti compie in musica lo stesso percorso di questi pittori e tratta gli stessi temi, al punto da poter essere usato come lente storica e critica di questa stagione. Proprio come questi artisti, infatti, Battiato arriva da una produzione musicale radicale, sperimentale, con forti elementi concettuali. Nel 1978 pubblica L’Egitto prima delle sabbie, disco per pianoforte solo dalla scrittura minimalista, e l’album L’era del cinghiale bianco. Ma quello che potrebbe apparire come un ritorno all’ordine pop è invece un rifiuto della prassi del cantautorato 'impegnato' tipico e persino obbligato degli anni 70, così come il 'ritorno alla pittura' deraglia dai binari stabiliti (e impegnati) di realismo e astrazione.
Battiato frulla e ricompone alto e basso, popolare e colto, tradizione e tecnologia entro il quadro plastico offerto dalla musica e una dimensione testuale la cui caratura letteraria è accesa dai lampi di ironia. Tutto è lecito. Scrive canzoni come erme esoteriche. È una musica coloratissima, felice ma non senza pensiero. La sua vena mistica è cugina di quella incendiaria dei miracoli di Cucchi ed è sorella gemella di De Dominicis l’immortale. Se entriamo nei testi troviamo racconti sull’«esistenza di mondi lontanissimi / di civiltà sepolte, di continenti alla deriva». No time no space. «Viaggiatori anomali in territori mistici» dotati di calamite cosmiche sulle tracce di Gilgamesh. A quarant’anni di distanza, questa stagione senza utopie ma ricca di incanti, senza ortodossie ma meno frivola di quanto la si ricordi, appare come una giostra postuma a tutto, non solo al moderno, non solo capace ma soprattutto desiderosa di digerire la storia.