Arriva lui, trafelato, sembra un leone in gabbia: «Quando la facciamo quest’intervista? », incalza. «Aspettiamo che arrivi lei», rispondiamo. «Allora io vado in camerino a ripassare la parte», ribatte lui. Ed esce di scena. Ammirevole professionalità e umiltà, viene da pensare, dal momento che non si tratta di un debutto ma siamo alla cinquantesima replica. Rientra dopo 15 minuti, arriva lei che dall’alto dei suoi centonovanta centimetri inonda il palcoscenico con una folata di aristocratica serenità e di nobile nonchalance.
Seduti uno accanto all’altro in procinto di essere intervistati Alessandro Haber e Lucrezia Lante della Rovere sono un vistoso ed eclatante ossimoro per statura e stato d’animo. Eppure sono padre e figlia sul palco del Teatro Ambra Jovinelli di Roma. Lo spettacolo in questione è Il Padre del giovane drammaturgo francese Florian Zeller in grado di fornire un quadro ficcante e lacerante su un tema pesante e scomodo: l’Alzheimer, con tutte le sue implicazioni patologiche, relazionali, psicologiche e sociali. Un problema che interessa solo in Italia milioni di persone se si calcola che seicentomila sono le vittime di questa ma-lattia, ma a esserne coinvolti sono i familiari tutti.
La prima domanda è proprio sull’importanza di questo tema e sulle ragioni della loro scelta artistica. Haber parte in quarta: «Sia nella vita che nel teatro ho sempre cercato di fare scelte che abbiano una forza, un valore, un senso, un’etica, che facciano pensare, riflettere, emozionare, per evitare che il pubblico vada via dalla platea vacuo. E Il Padre va esattamente in questa direzione, tanto più che la trovata geniale dell’autore è stata quella di mettere gli spettatori nella testa di Andrea, il protagonista malato di Alzheimer, facendogli vivere tutte le sue confusioni, visioni, smarrimenti, bisogni e lucide follie». Concorda totalmente Lucrezia Lante della Rovere sull’idea di un teatro che debba scuotere le coscienze: «Le angosce, le ansie, tutte le sfaccettature della vita devono essere portate sul palcoscenico. Noi andiamo in tournée per un anno e più e se non veicoliamo un pensiero denso e profondo non ha senso allora fare questo mestiere». «Detto ciò – aggiunge Haber – , il teatro è per me una panacea perché qui su queste tavole io mi sento al riparo da tutte le falsità, le cattiverie e gli opportunismi che ci sono là fuori».
Che tipo di lavoro avete fatto per riuscire a cogliere la verità dei vostri personaggi? «Adoro la parola “verità” – ribatte subito Alessandro Haber – e cerco sempre di viverla in scena senza usare il perbenismo teatrale. Non so dov’è il diaframma e non voglio saperlo, odio gli attori che “recitano”, mi fanno venire il voltastomaco. Per quanto riguarda questo personaggio di certo non sono andato a studiarmi i malati di Alzheimer, ma sono riuscito a entrare nella loro mente forse per sensibilità, per talento fino ad arriva- re persino a percepire la paura, il panico che questi malati provano ad esempio nei momenti in cui hanno sprazzi di lucidità quando la coscienza della loro patologia gli si palesa spietata davanti ai loro occhi ».
«Nel caso di Anna, il mio personaggio – spiega Lucrezia – ho messo in campo le mie fragilità, come la difficoltà di prendersi cura di una persona che ami e che stai per perdere, il sentirsi incapaci di aiutare perché quando ti si ammala un genitore è la prima volta che ti capita e non sai come comportarti». Senz’altro questo testo vi ha spinto a indagare il mistero della sofferenza. Quali riflessioni vi ha innescato? «Che non sei onnipotente – replica prontamente Haber –, che siamo labili e fragili, che siamo nelle mani di qualcosa di altro e oltre. La malattia ti cambia, ti rende meno aggressivo e più consapevole delle priorità della vita». «Il dolore è un maestro di vita – conferma l’attrice romana –, ti insegna molto. Ho seguito un’amica in un percorso dolorosissimo, ma lo ricordo come una delle esperienze più belle della mia vita perché abbiamo messo in atto slanci di amore inimmaginabili, da un dramma è nata un’opportunità straordinaria».
Haber dice di sé: «Io non mi preparo mai. Faccio arrabbiare registi e colleghi perché non so mai la parte fino al giorno prima; ho un pessimo carattere, gli scontri con la compagnia sono la prassi; però so chiedere scusa. Non ho mai nessuna sicurezza, ancora me la faccio sotto a ogni spettacolo. Ma poi, quando salgo sul palco, non ce n’è più per nessuno, so come occupare lo spazio, so chi devo diventare »… Lucrezia Lante della Rovere, conferma? «Al cento per cento. Tutto vero». E come vive Lucrezia i momenti dietro le quinte che precedono l’entrata in scena? «Faccio stretching, sciolgo i muscoli, ginnastica distensiva…». «Posso approfittare per dirtelo una volta per tutte? – interviene il collega bolognese –. Non lo fare più! Mi distrai mentre sono in scena con tutte quelle tue movenze strane». Lui e lei, padre e figlia in scena, bisticciano, si abbracciano, ridono… Empatia vincit omnia, la magia del teatro che vince ogni contrasto e concilia gli opposti.