Un seggio elettorale, il luogo dove la democrazia - almeno formalmente - si compie - nsa
«La sovranità? È il fondamento della legittimazione del potere. È lo spazio vuoto tra la nuda forza e il riconoscimento di un potere legittimo. Ma è come un’ombra che si manifesta, senza avere sostanza. Un’immagine senza corpo. Eppure senza questa continua allusione alla sovranità non avremmo nient’altro che il potere bruto». Luigi Alfieri, professore di Filosofia politica all’Università di Urbino, studioso della dimensione simbolica della politica e dell’antropologia del pluralismo religioso, in L’ombra della sovranità ( Treccani, pagine 142, euro 15,00) percorre un interessante viaggio nelle interpretazioni filosofiche di questo termine: «Da Hobbes a Canetti e ritorno», per riflettere sul senso che la sovranità rappresenta oggi, anche rispetto alla derivazione più impropria di “sovranismo” che alimenta invece il confuso dibattito politico.
Professore, messa così, l’ombra della sovranità sembra una “maschera” del potere…
Lo è, ma non serve solo a nascondere il volto del potere. Considerarla solo una maschera è un modo per eludere il problema. Perché se ci troviamo di fronte a una maschera, il dovere filosofico sarebbe di toglierla, di smascherare la realtà che sta sotto la maschera. Il problema è che se togliamo la maschera resta il nulla. Quindi la maschera non deve essere tolta. Il gesto smascherante è in un certo senso uno spostamento del problema. Così andiamo da un’altra parte.
E dove?
Ci troviamo di fronte al potere, perdendo un pezzo sostanziale del discorso. Che è la dimensione che ci presenta Hobbes: dissolta la legittimità, al potere resta la nuda forza. È la crisi della legittimità a uccidere il «Dio mortale», perché ogni forza prima o poi incontra una forza più grande. Per questo non si può ridurre la sovranità al potere, Hobbes lo capisce benissimo.
Lei dà una lettura inedita di Hobbes e lo definisce sorprendentemente «cristiano ».
Esattamente. Una cosa che mi meraviglia molto negli studi su Hobbes è che non si comprende che lui utilizza un registro di pensiero che si ritrova in altri autori in cui la dimensione religiosa è ovvia e innegabile, come Pascal o prima ancora Lutero. Abbiamo cioè un potere mondano che di per sé non è nient’altro che forza, anche forza bruta, ma che ha ciò nonostante un fondamento divino, anche se indiretto. La teologia politica di Hobbes va presa sul serio. Basta leggere i suoi testi. Il suo sistema si regge su un fondamento teologico: se Dio non è sovrano, non c’è nessun sovrano. La sovranità umana non è che l’ombra della sovranità di Dio.
Articolando il ragionamento lei arriva alla conclusione che la sovranità riposa sulla contraddizione, ma anche la speranza, che in un mondo senza Dio, quindi secolarizzato, la mano di Dio operi ancora e comunque…
Lasciamo aperta la possibilità alla mano di Dio di operare. Ci lasciamo il dubbio che ci sia. Diamo a Dio una chance. Anche in democrazia.
E la sovranità del popolo?
La rappresentanza del popolo non è sufficiente, perché resta indecifrato il problema del perché il potere appartenga proprio al “popolo”. Perché siamo tutti - chi più, chi meno, con maggiore o minore delusione - sostanzialmente convinti che la democrazia sia il miglior governo possibile? Non è l’evidenza che ce lo dimostra. Semmai l’evidenza dimostra il contrario.
Churchill diceva che «la democrazia è la peggiore forma di governo, ma non ne conosco una migliore»...
Sì, ma per quale motivo, nonostante l’evidenza mostri tante criticità?
Dica…
Credo che occorra andare oltre la rinunciataria e riduttiva visione formale che abbiamo della democrazia a livello teorico: la democrazia vista come applicazione corretta di procedure formali, come garanzia formale della legalità della vita politica. Ma sono appassionanti le regole? Non mi sembra, sinceramente.
Senza contare che spesso queste procedure sono anche compromesse. Prendiamo la situazione degli ultimi mesi: siamo passati da un “governo dei pieni poteri” al “governo dei migliori”; abbiamo visto acrobatici cambi di maggioranze senza passare dalle urne, viviamo una sorta di Dad-crazia…
Di certo c’è una forte tendenza, soprattutto in una situazione emergenziale come quella che viviamo a livello mondiale, di una deriva tecnocratica della democrazia. Dentro certi limiti è comprensibile e persino condivisibile. Però rischiamo di confondere l’emergenza con la normalità. E quindi di costruire un modello alternativo, una riproposizione dell’utopia aristocratica del governo dei migliori. Ma il governo dei migliori presenta un problema insolubile che ha colto con chiarezza insuperabile Pascal.
Cosa dice Pascal?
In uno dei frammenti politici compresi nel geniale caos dei Pensées, questo grande pensatore cattolico e mistico, ma anche cinico, con uno sguardo assolutamente disincantato sulla realtà, dice: se noi vogliamo il governo dei migliori allora ognuno pretenderà di essere il migliore. Così non avremo mai una stabilità e rischiamo di perderci nel conflitto e nella guerra civile.
A chi affidare allora il potere?
Al figlio della regina, dice Pascal, oppure, diremmo noi, a chi ha vinto le elezioni.
Perché il figlio della regina?
Perché si sa chi è, è identificabile. Ha un titolo a governare che non può essere messo in discussione. Un titolo puramente formale.
E ci basta questo?
Sì e no. Perché il figlio della regina, essendo stato partorito dalla regina forse è il figlio del re, ma non possiamo sapere se lo è veramente. E se non è il figlio del re non è legittimo. Allora ci accontentiamo di affidare il potere al figlio della regina per garantire la pace sociale. La giustificazione formale diventa anche sostanziale: perché se fosse veramente il figlio del re, allora il figlio della regina sarebbe vicario di Dio. Come chi ha vinto le elezioni sarebbe “rappresentante” del “popolo sovrano”. La forma ha senso perché rinvia a qualcosa.
Anche se il figlio della regina - cito testuale - può essere un «idiota»?
Esattamente. Ma in democrazia gli idioti basta non votarli e se li votiamo vuol dire che siamo idioti anche noi e loro ci rappresentano perfettamente. Ma se dopo un po’ di tempo ci accorgiamo finalmente che sono degli idioti e che lo siamo anche noi, possiamo sempre smettere di votarli e non c’è bisogno di tagliare nessuna testa.
Come si traduce nel tempo presente?
Che chi vince le elezioni non ha vinto perché è il migliore. Però lo accettiamo provvisoriamente fino alle elezioni successive, perché comunque, nell’atto formale che lo ha portato al potere – una procedura elettorale –, si manifestano, anche solo in maniera allusiva, i valori sostanziali della nostra comunità: la libertà, l’uguaglianza dei cittadini, il diritto di scelta, la legittimazione dell’autorità. Il sistema democratico contiene al proprio interno la possibilità della contestazione legittima all’ordine stesso. Nel dialogo fra maggioranza e opposizione. E con l’esercizio del voto. È la finestra aperta della democrazia.
Negli ultimi tempi più che di sovranità, nel dibattito politico, si parla di sovranismo.
Il sovranismo fa riferimento a uno dei due volti della sovranità. Quella interna e quella esterna. La prima è il rapporto dello stato con i propri cittadini, la seconda dello stato con gli altri stati e con gli organismi sovranazionali. Sovranismo è una posizione di politica estera, il tentativo di rifiuto o di riduzione della dimensione sovranazionale delle istituzioni. È l’antieuropeismo, nella convinzione o illusione o finzione che un rafforzamento della sovranità nazionale e una riduzione dell’influenza dell’istituzione sovranazionale possa comportare un vantaggio. L’emergenza sanitaria che viviamo ha dato probabilmente un colpo durissimo al sovranismo. In ogni caso il sovranismo è un problema contingente, non tocca il fondamento della dimensione politica. La sovranità è un fondamento politico. Anche se è un’ombra.
Ma vede anche delle luci?
Si, non nel senso che arriveremo al governo ideale e alla libertà perfetta. La mediocrità del presente è destinata a essere superata in un futuro che non sarà necessariamente migliore, perché non c’è niente che fa intravedere una simile prospettiva a breve. Il futuro ha però un grande vantaggio: che non ha limiti. La democrazia è aperta all’infinito del possibile. L’unica effettiva ragione di superiorità sulle altre forme di governo. E scusate se è poco.