sabato 20 aprile 2019
Intervista all’étoile, che ha ripreso a danzare sei anni fa dopo l’addio nel 2007. Stasera a Milano l’ultima replica di “Woolf works” al Teatro alla Scala: «Uno spartiacque nella storia della danza»
Alessandra Ferri in “Woolf works” (Brescia e Amisano/Teatro alla Scala)

Alessandra Ferri in “Woolf works” (Brescia e Amisano/Teatro alla Scala)

COMMENTA E CONDIVIDI

Fa un certo effetto sentire Alessandra Ferri parlare della sua vita – una vita dedicata alla danza «perché a tre anni già ballavo, forse senza sapere perché e quale scintilla si era accesa in me» – e paragonarla al Cammino di Santiago. «La danza per me è stata questo ed è questo ancora oggi, un’esperienza totalizzante: quando intraprendi quel Cammino hai ben chiara la meta e sai che tutti i tuoi sforzi saranno tesi a quello, che tutte le fatiche e i sacrifici saranno ripagati. E capita lo stesso a chi sceglie la danza, tanto che il cammino fatto di studio continuo, di lezioni quotidiane e di spettacoli diventa un percorso di conoscenza e di crescita personale».

La ballerina milanese stasera è in scena al Teatro alla Scala per l’ultima replica di Woolf works, balletto che il coreografo britannico Wayne McGregor ha creato per lei su tre racconti di Virginia Woolf: I now, I then ispirato a Mrs. Dalloway, Becomings che traduce in danza la corsa attraverso i secoli di Orlando e Tuesday trasposizione coreografica dell’inquieto The waves. Musiche originali di Max Richter per un racconto sempre in bilico tra narrazione e astrazione dove McGregor amplifica sentimenti e passioni con un linguaggio dove classico e contemporaneo si fondono naturalmente. «Sono felicissima di aver portato a Milano il balletto nato nel 2015 al Royal Ballet di Londra e di averlo danzato con il Corpo di ballo del Teatro alla Scala» racconta Alessandra Ferri tornata a danzare nel 2013 dopo che nel 2007 aveva detto addio alle scene. «Mi sono accorta che avevo abbandonato la mia essenza, quello che sono nel profondo, così ho deciso di rimettere le scarpette».

Le mancava il palcoscenico, Alessandra Ferri, dopo una vita passata a danzare con le compagnie più importanti, il Royal ballet di Londra, l’American ballet di New York, la Scala dove è stata etoile dal 1994 sino al 2007?

«Il palcoscenico non mi è mai mancato, mi mancava la danza. Quando ho deciso di dire addio l’ho fatto in modo radicale, non danzavo a casa per tenermi in allenamento. In quei sei anni lontani dalla sbarra mi sono resa conto che avevo abbandonato la mia essenza più profonda. E solo per una questione di età. Sono un’artista, sono una ballerina e danzare è la mia missione: penso di essere nata per danzare, lo sento da sempre, così ho deciso di rimettermi a fare ciò per il quale mi sento chiamata: tornare è stato naturale e allo stesso tempo necessario. Ora non mi pongo più scadenze tanto più che quello che faccio è già abbastanza fuori dalle regole e dunque ogni giorno ho parecchi motivi per esprimere gratitudine».

Al Teatro alla Scala, dove ha mosso i primi passi nelle aule della Scuola di ballo, non tornava dal 2007 quando salutò con La dame aux camelias. Che effetto le ha fatto tornare a danzare a Milano, la sua città?

«È stato emozionante ed entusiasmante perché sono tornata con Woolf works, un lavoro che amo molto e che secondo me segna uno spartiacque, un prima e un dopo nella storia della danza: quella di Wayne McGregor è una coreografia che catapulta il balletto classico nell’emotività e nell’estetica dell’oggi e che fa sembrare vecchio tutto ciò che è venuto prima. Ho ritrovato il mio Corpo di ballo, con danzatori di ieri e giovani leve preparatissime. Quello che mi ha fatto più piacere in queste due settimane di spettacolo, oltre naturalmente all’entusiasmo del pubblico, è stato l’affetto da parte di tutte le persone che lavorano in teatro i macchinisti, le sarte, gli addetti alla mensa, tutte le persone che ho incontrato dietro le quinte mi hanno ringraziata dicendo “Finalmente siamo nella modernità anche noi”».

Sulla scena è Mrs. Dalloway, ma anche Virginia Woolf in un racconto dove i personaggi si sovrappongono alla loro autrice. Un ruolo che le è valso l’Olivier Award, ma molto diverso dalle varie Giulietta, Giselle, Manon che ha danzato alla Scala e nel mondo sino al 2007.

«Non volevo tornare sulle scene e guardare indietro, rifare quello che avevo fatto nella mia carriera. Volevo trovare nuovi stimoli, nuove storie da raccontare e nuovi personaggi ai quali dare vita. McGregor è stato coraggioso nel portare in scena una donna di cinquant’anni, direi rivoluzionario dato che le eroine del balletto sono sempre giovani fanciulle. Coraggioso anche nell’affidare a una donna di 55 anni come sono io un ruolo moderno e totalmente proiettato in avanti».

Cosa le ha fatto dire di sì a questo ruolo?

«Quello che mi ha sempre mosso quando dovevo scegliere che personaggi interpretare: danzavo un ruolo quando sentivo una spinta interiore, quando avvertivo vibrare dentro qualcosa in grado di far diventare mio quel personaggio. È stato così con Giulietta ed è così ancora ora: di recente ad Amburgo sono stata Eleonora Duse per John Neumeier, spettacolo che mi piacerebbe portare a Milano, mentre con McGregor ha creato a New York AfteRite sulla Sagra della primavera di Stravinskij. La danza è stato il mio cammino e continua ad esserlo, attraverso di essa e attraverso i personaggi che interpreto ho conosciuto e conosco chi sono».

Come trasmettere questa passione alle nuove generazioni, come passare il testimone?

«Una passione non si può trasmettere a tavolino, occorre essere autentici in ciò che si fa, mostrare l’entusiasmo che si mette in ciò che si fa, cercare di far scattare così una scintilla anche agli altri».

Vede una nuova Alessandra Ferri?

«Non voglio vederla perché penso che nella vita occorre avere il coraggio di essere se stessi: siamo unici e spero che ognuno possa comprendere e valorizzare al meglio la propria unicità. Vedo molte ballerine, anche nelle file del corpo di ballo, che mi affascinano perché ritrovo in loro quella fiammella di autenticità che ho cercato di non far mai spegnere nella mia vita».

Come vede da italiana che ha scelto di vivere negli Stati Uniti e di girare il mondo, l’Italia?

«Penso che sia giunto il momento di pensare alla politica in una maniera nuova, con più cuore, con più attenzione e dedizione verso l’altro».

Ha mai pensato di provare a impegnarsi in questo campo?

«No, perché il mio ruolo è un altro, sono un’artista e non un politico. Devo fare al meglio il mio mestiere tanto più che in momenti di aridità il la capacità dell’arte di toccare i cuori e di nutrire l’anima delle persone è indispensabile».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: