Uno dei più audaci e penetranti interpreti di Agostino, Peter Brown, nell’epilogo alla sua monumentale biografia dell’Ipponate, si chiedeva: «Che cosa significò per i colleghi africani scoprire che tra loro avevano un genio?». Ma Agostino era davvero quel genio isolato nel suo scriptorium? Brown auspicava uno studio ad hoc sui rapporti di Agostino con i suoi colleghi africani, che gli sembravano quasi schiacciati dalla sua soverchiante figura. Proprio da queste riflessioni scaturisce ora un nuovo originale contributo frutto di una ricerca dottorale in teologia dello studioso bellunese Davide Fiocco. Attraverso una serrata analisi storico- filologica che considera come fonte principale le Epistulae nella loro integralità e nella peculiarità del loro contesto originario, Agostino emerge a confronto con i colleghi, nell’opera di ascolto e nel dirimere contenziosi tra chierici, ma anche nel confronto con ammiratori e avversari, con i maggiorenti e altri personaggi dell’epoca.
È la testimonianza di un vissuto di relazioni e dibattiti, sinodi e controversie. Agostino non era un genio isolato, ma pienamente partecipe della vita della sua comunità e inserito nel collegio delle Chiese africane. Le epistole infatti raccontano in presa diretta l’opera del vescovo di Ippona e allo stesso tempo la vitalità e la sinodalità delle Chiese d’Africa nei primi tre decenni del V secolo. Emerge de facto un vissuto collegiale a rivelare quanto i vescovi africani, porzione dell’intero episcopato mondiale, si percepissero in solido custodi e garanti della vita ecclesiale, pienamente legittimati ad agire in suo nome, in un’espressione piena di collegialità. Oltre alle vicende storiche anche il lessico ha permesso di rintracciare la coscienza collegiale che univa i vescovi africani.
A Fiocco è parsa particolarmente significativa l’esortazione che Alipio e Agostino rivolsero a un candidato per incoraggiarlo ad accettare la cura di una diocesi nella quale proprio la collegialità vissuta è espressa come « spiritalis amoris vinculum » da cui il titolo dell’opera pubblicata dalla TiPi di Belluno ( Spiritalis amoris vinculum. Testimonianze di collegialità episcopale nell’epistolario agostiniano, pagine 800, euro 35,00). L’analisi dell’epistolario agostiniano conferma dunque quanto il Concilio canonizzò nella perifrasi “collegialità episcopale” fosse effettivamente vissuto nella Chiesa antica, in particolare nelle relazioni dell’episcopato africano. A conclusione della corposa indagine dottorale sulla vita ecclesiale dell’Africa antica, ricavata dalle lettere del suo più illustre rappresentante, ci si chiede se essa non possa illuminare anche la vita ecclesiale contemporanea. Se infatti negli anni precedenti il Concilio il ressourcement, il ritorno alle fonti patristiche, diede un contributo decisivo al dibattito che accompagnò l’elaborazione della Lumen Gentium, la testimonianza di collegialità offerta dalle antiche Chiese africane può ancora parlare all’attualità ecclesiale e la vitalità di quell’antica Chiesa può costituire uno stimolo per la Chiesa del XXI secolo, proprio a proposito della collegialità, “parola-chiave” dell’ecclesiologia del Vaticano II. Oggi la sua espressione più solenne si ha nel Sinodo dei vescovi, che, è noto, fu annunciato da Paolo VI mentre si apriva l’ultima sessione del Concilio.
La letteratura ha registrato diverse perplessità riguardo all’effettiva rappresentatività del Sinodo rispetto al collegio episcopale e riguardo la natura de iure et de factoconsultiva di quel-l’assise, ma come ha evidenziato papa Francesco il 18 ottobre 2015 – giusto alla ricorrenza dei cinquant’anni dell’istituzione – «in una Chiesa sinodale, il Sinodo dei vescovi è solo la più evidente manifestazione di un dinamismo di comunione che ispira tutte le decisioni ecclesiali ». Il Papa sollecitava in quell’occasione a «riflettere per realizzare ancora di più, attraverso questi organismi le istanze intermedie della collegialità, magari integrando e aggiornando alcuni aspetti dell’antico ordinamento ecclesiastico». E significativamente affermava: «L’auspicio del Concilio che tali organismi possano contribuire ad accrescere lo spirito di collegialità episcopale non si è ancora pienamente realizzato. Siamo a metà cammino, a parte del cammino. In una Chiesa sinodale, come ho già affermato, “non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare 'decentralizzazione”». L’indirizzo del Papa trova ragione dalla Lumen gentium, dove è riconosciuto alle Conferenze episcopali l’ambito da cui ci si può attendere «un contributo molteplice e fecondo, perché lo spirito collegiale passi a concrete applicazioni» (LG 23).
Del resto, all’inizio del suo pontificato, anche Giovanni Paolo II aveva descritto le Conferenze episcopali nazionali «come una delle forme in cui si esprime la collegialità episcopale». Ma poco dopo, alla vigilia del Sinodo straordinario del 1985, si cominciò ad avvertire nel dibattito ecclesiale una certa insofferenza: si disse che queste strutture intermedie rientrano tra le istituzioni di diritto ecclesiastico e che dunque non sono «parte della struttura ineliminabile della Chiesa com’è voluta da Cristo». Si paventò lo spauracchio del nazionalismo e del gallicanesimo per concludere che esse «hanno soltanto una funzione pratica concreta » e le conseguenze di questa incertezza teologica sembrarono fissarsi nell’esortazione apostolica Pastores gregis, nella quale si afferma che le Conferenze episcopali «con le loro commissioni e uffici esistono per aiutare i vescovi e non per sostituirsi a essi e ancor meno per costituire una struttura intermedia tra la Sede Apostolica e i singoli vescovi».
Invece il vissuto dell’antica Chiesa africana permette di riconoscere nelle «istanze intermedie della collegialità» una vera e reale espressione della collegialità dei vescovi, teologicamente fondata. Si è visto come per gli antichi vescovi africani i problemi ecclesiali dovessero essere primariamente risolti all’interno della Chiesa locale, poi in seno alle riunioni episcopali provinciali e, in ultima istanza, nel Concilio plenario africano. A loro bastava ricordare Cipriano e la sua ferma presa di posizione assunta di fronte a papa Cornelio, al quale ricordava che le controversie andavano risolte laddove erano sorte. In sostanza dunque per lo studioso patrologo bellunese proprio «il tessuto delle relazioni ecclesiali vissute nell’antica Africa cristiana, ricostruite dalla testimonianza di Agostino, sembrano dare fondamento teologico al decentramento della collegialità episcopale auspicato dall’attuale Vescovo di Roma, permettendo di riconoscere alle moderne Conferenze episcopali – regionali, nazionali e sovranazionali – una capacità di rappresentare il coetus episcopale, come si concreta in una regione o in un continente, senza nulla togliere all’unità e alla cattolicità della Chiesa cantata nel Salmo 44: una e santa, ma “rivestita di una veste variegata”».
Certo, non si possono trapiantare sic et simpliciter i modelli dell’antichità dall’Africa cristiana del IV secolo alla vita della Chiesa contemporanea. Eppure oggi la patrologia, ricusando di farsi ridurre a «un inutile archeologismo », vuole essere «uno studio creativo che aiuta a conoscere meglio i nostri tempi e a preparare il futuro»: così aveva indicato nel 1989 la Congregazione per l’educazione cattolica nell’Istruzione sullo studio dei padri della Chiesa nella formazione sacerdotale (n. 60). Di qui il proposito dell’autore del volume di gettare un ponte tra le istanze ecclesiologiche contemporanee e la vita della Chiesa antica, qual è attestata dal più rappresentativo e geniale autore latino dell’età patristica, nella convinzione che lo studio delle fonti antiche è la continua riscoperta di una vivace sorgiva, la Tradizione della Chiesa, che pure essa è sempre “ tam antiqua et tam nova”.