lunedì 24 luglio 2023
Scompare a 88 anni il celebre cantante folk calabrese, aedo di un meridionalismo ironico e mai rassegnato. Con ballate di satira politica come "Qua si campa d'aria", aveva venduto un milione di copie
Il cantante Otello Profazio (1935-2023)

Il cantante Otello Profazio (1935-2023) - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Lo hanno chiamato il "principe dei cantastorie". O anche l'Omero di Calabria. Titoli e soprannomi a cui il più celebre fra i folksinger calabresi, al secolo Otello Ermanno Profazio, non dava grande peso, senza menarne particolare vanto. L'unico epiteto a cui teneva, e con cui amava definirsi, era quello di cuntastorie, per dirla in maniera dialettale, ossia ricercatore e raccontatore di pezzi di vita, musiche e vicende che affondavano le radici nella cultura popolare non solo della sua Calabria, ma anche dei tanti Sud che compongono la tela d'arlecchino del nostro Meridione, a cominciare dalle "confinanti" Basilicata e Sicilia, a cui dedicò parte del suo impegno e della sua ricerca. Un calabrese che aveva saputo raccontare la sua terra e tutto il Sud per come sono, senza infingimenti o ipocrisie. E che quella stessa politica, su cui lui aveva spesso motteggiato in modo salace, ora omaggia, salutandolo come "una leggenda dalle enormi capacità artistiche e dalla spiccata sensibilità umana nei confronti dei soggetti più fragili e indifesi", per dirla col presidente del Consiglio regionale della Calabria, Filippo Mancuso.

Cantore degli ultimi

Nato nel giorno di Santo Stefano del 1934 a Rende, in provincia di Cosenza, dove il padre Enea faceva il capostazione, Otello era fieramente legato ai borghi e alla parlata delle sue origini. La sua famiglia proveniva da Palizzi, paesino di duemila abitanti nel cuore dell'Aspromonte. Abitava a Pellaro, davanti al mare che bagna Reggio Calabria, e in un ospedale della città sullo Stretto ha chiuso a 88 anni la sua parabola terrena, dopo un ricovero d'urgenza per l'aggravamento delle condizioni cardiache. Una vita lunga e intensa, la sua, quasi interamente dedicata a dare voce e musica ai sentimenti e alle storie, a volte intime e a volte popolari, tirate fuori dalle viscere della propria terra. "Era un grande ricercatore delle musiche e delle culture popolari - ha scritto in queste ore l'antropologo Vito Teti, già ordinario presso l'Università della Calabria - e lascia un patrimonio immenso di memorie e documenti sul mondo degli ultimi della nostra terra". Era e si sentiva "socialista e uomo del popolo, di cui conosceva come pochi il linguaggio, gli umori, lo spirito positivo e la speranza", racconta ancora il professor Teti, che lo conobbe da giovane, quando "girava in lungo e in largo, instancabile e appassionato, nelle piazze dei paesi della Calabria e del Sud. Siamo diventati amici alla fine degli anni Settanta, quando nella sede Rai calabrese realizzammo un 78 giri con canti da lui raccolti e da me trascritti".

Dalla poesia di Buttitta alla leggenda di Colapesce

Nel decennio precedente, le sue prime incisioni musicavano trame di vicende storiche: dalla saga del brigante aspromontano Peppe Musolino alla straziante fine della baronessa di Carini, fino alla collaborazione col poeta siciliano Ignazio Buttitta, culminata in un prezioso 33 giri. In quell'epoca, vennero fuori canzoni,traslocate poi nel repertorio di diverse band meridionali. Fra queste, iil “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali”, racconto trasfigurato in versi dell'impegno sociale di un sindacalista socialista, ucciso dai latifondisti: "Era l'amuri lu so' capitali e 'sta ricchizza a tutti la spartia - cantava Profazio, accompagnato dalla fedele chitarra - Turiddu Carnivali nnuminatu e comu Cristu muriu ammazzatu". E sempre a metà degli anni Sessanta, mise su vinile la celebre "Leggenda di Colapesce", favola siciliana le cui origini affondano nel XII secolo, raccolta e rielaborata anche da Italo Calvino.

La satira di "Qua si campa d'aria" e il disco d'oro

Ma furono i travagliati anni Settanta, in cui l'Italia faceva i conti con gli strascichi dell'accelerata industriale del boom economico, con le disuguaglianze sociali e col piombo assassino del terrorismo, quelli in cui l'opera di Profazio iniziò ad avere notorietà. La capacità di ribaltare in modo creativo gli stereotipi di un certo meridionalismo "piagnone", fatalista e incline all'autocommiserazione prese forma e parole nel "cantato-recitato" puntuto e sferzante di "Qua si campa d'aria", vero e proprio manifesto della canzone d'autore calabrisi. Un testo inciso nel 1974 ma senza età, una sorta di distillato di ironia ("Il Sud è ‘nu paese bello assai... Siamo genti felici e stracontente, non abbiamo bisogno mai di niente"), disseminato da pungenti paradossi ("Il Sud è proprio un vero paradiso… Se vuoi morir, devi morire ucciso! "), fino alla strofa-simbolo, scatologica, beffarda e liberatoria insieme: "È al Nord che si beve e che si mangia, e c’è bisogno d’evacuar la pancia… Qui invece – ve lo dico in confidenza – non la sentiamo, no, quest’esigenza. Qua si campa d'aria!". Un affondo che lo rese noto anche oltre i confini nazionali e che fece vendere all'album un milione di copie, traguardo che gli fruttò un disco d'oro e che non è più stato raggiunto da un cantante folk nel nostro Paese. Un filone che peraltro già ricorreva nel 1970 in "Governo 'taliano", altra canzone celebre, in cui Profazio metteva alla berlina l'eccessiva pressione fiscale dello Stato sui cittadini, con frecciate coprolaliche come questa: "Guvernu 'talianu ti ringraziu chi per pisciare non si paga daziu. E chi per farsi ‘na ca-ca-cantata, non c'è bisogno di carta bullata". Embrione prosaico ma efficace di una satira sociale e politica resa pop sul finire dei Settanta dai versi di un altro geniale musico di Calabria, quel Rino Gaetano nato sulle coste dello Ionio, a Crotone. In quegli anni le loro canzoni si intrecciavano e si rincorrevano, copiate su audio cassette fatte girare con venerazione nelle autoradio di famiglie di emigranti che tornavano al Nord dopo le ferie. Pigiati dentro utilitarie con le valige legate sul tetto, operai e artigiani, muratori e carpentieri si riconoscevano in quei due cantori degli umili e ne traghettavano i versi, intonandoli con le mani sul volante, fra le brume padane o piemontesi. Perché avvicinare il basso e l'alto, mescolare italiano e dialetto, espressioni auliche e termini grevi era una delle cifre di Profazio, che non amava l'accademia ma sapeva riconoscerne i meriti. E gli altri cantautori lo conoscevano e lo stimavano: su Youtube ancora gira, con quasi 3 milioni di visualizzazioni, una versione in bianco e nero di "Addio Lugano bella", canzone cara agli anarchici, interpretata da lui insieme a Gaber e Jannacci.

Il premio Tenco e la riscoperta

Da allora, fino agli anni Duemila l'Omero di Calabria ha continuato a macinare chilometri, fra una cantata in piazza e una tournée all'estero, ovunque qualcuno avesse voglia o necessità di ascoltare le sue storie di umanità ferita eppure dignitosa e sempre fiduciosa nella possibilità di un riscatto. Un'originalità riconosciuta dalla critica, che gli è valsa nel 2016 il Premio Tenco per la canzone d'autore, e più di un invito a tenere una lectio magistralis sulla sua arte (l'ultima all'Auditorium-Parco della Musica di Roma, nel maggio del 2022). Meno frequenti, invece, le incisioni di nuovi album, ma sempre con qualche incursione nella satira sociale, come nel 2018, con l'album di canzoni inedite "La storia", in cui spicca l'arguto "Inno dello statale". Per tre lustri la sua rubrica "Profaziate" è stata un appuntamento fisso sulle pagine della Gazzetta del Sud, per poi traslocare in tv sull'emittente Video Calabria. Poi, in anni recenti, è iniziata la riscoperta del suo repertorio da parte di altri chansonnier delle stesse latitudini, come il cosentino Peppe Voltarelli, che gli ha dedicato un intero album e ha cantato con lui più volte sul palco. E che ora lo saluta con una foto di gruppo, che include anche Brunori Sas, e in calce un commosso: "Ciao Otello, il più divo dei cantanti folk".



© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: