mercoledì 4 gennaio 2023
È scomparso il traduttore dei grandi teologi, tra i quali Ratzinger
Giulio Colombi

Giulio Colombi - archivio

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È stato chiamato, per l’aura di rigore nel lavoro editoriale, direttamente da un papa e da un cardinale, destinato a diventare papa, per la traduzione di due classici della teologia cattolica: da Paolo VI, tra il 1963 e il 1964, per la revisione della traduzione, fatta dal giovane Montini, de “I tre riformatori” di Maritain; dal cardinale Ratzinger, tra il 2001 e il 2002, per la resa italiana del testo di Johann Sebastian Drey, “Breve introduzione allo studio della teologia”. Parliamo del professor Giulio Colombi la cui scomparsa il 1° gennaio 2023 all’età di 97 anni, il giorno dopo la morte di Joseph Ratzinger, sembra rimandare a qualcosa di ineffabile: con le sue traduzioni egli ha contribuito a far conoscere in Italia, dopo il Concilio Vaticano II, il giovane teologo tedesco. Una fedeltà che ha avuto il suo acme quando nel marzo 2004, in prima mondiale, pubblicò per Morcelliana la traduzione del celebre dialogo Ratzinger-Habermas.

Giulio Colombi è stato innanzitutto un intellettuale tra i più fini del mondo cattolico italiano post-conciliare, dove per intellettuale si intende chi sa orientare il dibattito pubblico con la scelta dei libri e delle idee meritevoli di circolazione. Si era laureato in filosofia all’Università Cattolica con Gustavo Bontadini, che gli aveva assegnato per le sue capacità logiche e competenze linguistiche una tesi su Russel, apprezzata dal filosofo inglese. Dal 1957 Colombi con la Morcelliana – a fianco di Stefano Minelli e formando allievi e allieve – ha promosso la conoscenza di autori di riferimento della cultura contemporanea: Jedin, Guardini, Rahner, Heidegger, von Balthasar, Danielou, Ratzinger, Pannenberg, Biser e decine di altri ancora, spaziando dalla teologia alla filosofia, dalle scienze delle religioni all’ esegetica biblica, alla storia della Chiesa. Era il modo in cui lui intendeva la fedeltà al dettato originario della Morcelliana: un’editrice cattolica che con sguardo adulto dialoga con il mondo secolare, dopo, per dirla con Guardini, la “fine dell’epoca moderna”.

Colombi è stato anche un traduttore che ha come termine di paragone nomi del calibro di Ervino Pocar e Giovanni Moretto. Traducendo più di cento libri e centinaia di articoli dal tedesco, francese, spagnolo , portoghese, danese, Colombi – dopo aver portato a compimento l’edizione italiana della “Storia del “Concilio di Trento” di Jedin, dei “Saggi teologici” di Balthasar e dell’Enciclopedia “Sacramentum Mundi” di Rahner - ha forse dato il meglio di sé nella traduzione di Romano Guardini. Il suo capolavoro è la resa italiana de “Il Signore” del teologo italo-tedesco. Di Guardini ha fatto proprio anche la concezione del tradurre: interpretare in una lingua di arrivo lo spirito (‘pneuma’) di una lingua di partenza. Uno spirito che si nasconde nello stile e nella sintassi di un autore. In tal senso, Colombi, che sapeva valorizzare la ricchezza lessicale dell’italiano, è stato uno dei più significativi traduttori italiani contemporanei.

Giulio Colombi ha inteso queste attività come compimento del suo essere uomo della Chiesa cattolica, che ha il suo punto di riferimento nel magistero di Paolo VI, alla cui spiritualità ha dedicato il suo unico libro (1998). Diacono dal 1982, Colombi ha servito la Chiesa di Brescia in molteplici attività pastorali. Padre Carlo Manziana amava ricordare a Stefano Minelli che la fortuna della Morcelliana era di avere un ‘santo’ colto in redazione: santo perché di un’umiltà unica, capace di mettersi in ascolto di chiunque lo interpellasse, fosse per una traduzione o per la necessità di aiutare un bisognoso.

Per finire, Colombi è stato un maestro che ha formato generazioni di universitari, aiutandoli nella sistemazione di testi da pubblicare. I suoi interventi redazionali erano ricercati anche da autori che pubblicavamo presso altre case editrici. Con Paolo De Benedetti, scherzando, in casa editrice si giunse a dire che Giulio Colombi aveva inaugurato “de facto” la prima cattedra universitaria per meriti editoriali. E memorabili restano le lettere nelle quali, vinte le cattedre, molti docenti si sentivano in dovere di ringraziare il professore invitandolo a intraprendere anche lui la carriera universitaria. Cosa che, con ‘understatement’, rifiutava: il vero cattedratico restava lui. E non a caso tutti lo chiamavano il Professor Colombi’: l’afflato pedagogico era tutt’uno con il rigore intransigente del giudizio.

Chi forse ha trovato la miglior definizione di Colombi fu Cristina Campo: dopo la collaborazione per la traduzione di “Venezia salva” di Simone Weil, rimase a tal punto colpita dalla puntualità delle osservazioni linguistiche del professore che in una lettera a Minelli lo definì “occhio di falco”. Non è difficile congetturare che in queste ore, nella cerchia dei dotti novecenteschi della “Communio sanctorum”, in molti si sono affrettati a volerlo conoscere, affidandogli da subito la revisione delle loro “quaestiones disputatae”.

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