Particolare dal "Ritratto dei due ambasciatori" di Hans Holbein il giovane, 1533. Londra, National Gallery - -
Metà del XVI secolo. Il Concilio di Trento pensa di abolire la polifonia perché i contrappunti complicati rendono incomprensibile il testo. I padri conciliari però ascoltano una esecuzione della Missa Papae Marcelli di Palestrina, dove la moltitudine delle voci esalta l’intelleggibilità del testo: la polifonia è salva. Anno 1948, Togliatti è ferito in un attentato, si rischia la guerra civile. De Gasperi chiama Gino Bartali: vinci il Tour. Il Ginetaccio compie l’impresa, l’Italia è salva. Non sembri così improbabile accostare questi due episodi, e per due motivi: il primo è che almeno nella percezione la perfezione del gesto estetico (lo è anche il capolavoro sportivo), così apparentemente assoluto, è in grado di incidere nella realtà fattuale. Il secondo è che si tratta in entrambi i casi di leggende, durissime a morire. E le leggende, con il loro fascino, nascondono una realtà molto più sfumata e soprattutto più ricca.
L’episodio di Palestrina non poteva mancare, per essere non semplicemente confutato ma argomentato e inserito in un quadro assai più articolato, nel volume che Chiara Bertoglio ha dedicato a La musica e le Riforme del Cinquecento (Claudiana, pagine 528, euro 45,00). Un libro che mette in ordine una materia ampia e complessa, su cui molto si è detto ma da prospettive incomplete: o perché affrontata dal punto di vista della sola storia della musica, valorizzando autori, scuole e capolavori ma perdendo di vista la vastità di un fenomeno che investe tutti gli strati sociali ed esperienze molto diversificate; o intingendo la penna nell’apologetica, e quindi esaltando la propria parte e screditando quella altrui. Infine la bibliografia si è sempre concentrata su un singolo “blocco”. Chiara Bertoglio si incarica di stendere un affresco vasto quanto l’Europa, Gran Bretagna compresa, affrontando la questione da una moltitudine di versanti – teologico, musicale, liturgico, estetico, politico, sociale... – e lo fa con un approccio post ideologico prima ancora che ecumenico.
Le questioni sul piatto sono molte. Il ruolo della musica in Lutero, Calvino e Zwingli, i “radicali” come Müntzer e Carlostadio e altri meno noti in Italia come Bucero, e quindi nella Riforma cattolica (Bertoglio giustamente distingue tra Controriforma, ossia il tentativo di riconquista delle terre perdute, e il processo di revisione interno alla Chiesa cattolica) è apparentemente secondaria ma investe in pieno il tema fortemente identificatorio del culto e assume, come ogni volta che il sacro incontra la dimensione estetica, una natura politica. Ma soprattutto è rivelatore di approcci teologici (e pastorali) di lunga portata. Nelle chiese protestanti il ruolo della musica è in diretta relazione con la dottrina della giustificazione, in particolare dei nodi di sola gratia (il culto perde la sua ragione di opera per guadagnare la salvezza e ciò incide direttamente sulla presenza e la funzione della musica nella liturgia) e sola scriptura, investendo la questione del testo e della lingua. Lutero elabora una vera teologia della musica come dono di Dio che lo porta a inglobare storia, generi e stili diversi nel dare vita alla geniale invenzione del corale, il canto di lode in cui l’assemblea dei fedeli manifesta il proprio sacerdozio, ma anche incentivando la pratica della musica nella spiritualità domestica. Calvino, pur apprezzandola, rubrica la musica a un valore funzionale, pedagogico, ma costruisce il corpo della propria Chiesa sul canto dei Salmi. Per Zwingli invece la musica è un pericolo, arrivando a un “iconoclasmo acustico”: nel suo ideale di un culto totalmente purificato la vera preghiera è nel silenzio del cuore.
Il Concilio di Trento non dà indicazioni prescrittive ma disegna un quadro che consente nei fatti la fermentazione di esperienze plurali già in atto a molti livelli. Se da una parte conferma il latino nella liturgia, dall’altra agevola l’uso del volgare nella vita spirituale extraliturgica, come confraternite e processioni. Bertoglio ha cura di rintracciare le radici di questi fenomeni, a partire dall’umanesimo che riporta al centro, non senza travisamenti e artificialismi, la questione della fedeltà alla parola che in ambito teologico diventa la “Parola”. Per tutti “intelleggibilità” è l’obiettivo, per quanto interpretato in modi molto diversi, mentre il massimo pericolo è “lascivia”, forse il termine con maggiore ricorrenza di tutto il libro: la musica può essere pericolosa se finisce per centrarsi su se stessa o tradire il suo scopo.
Un rischio, che affonda nel pensiero di Agostino, al quale i riferimenti sono costanti, trasversali a tutte le confessioni e precedono di gran lunga il momento delle Riforme: virtù della ricerca è mostrare come tanto in ambito protestante quanto cattolico le diverse riforme portano a sintesi storica fenomeni di lungo raggio. Fenomeni, per altro, mai univoci. Si assiste a una tensione continua tra teoria e pratica, mistica e morale, monodia e polifonia... Fino ad arrivare a una dialettica tra musica come strumento di opposizione confessionale, bandiera identitaria e perfino arma, e musica oltre l’opposizione. Bertoglio individua diversi tratti (a partire da problematiche e risposte comuni) che all’epoca costruivano ponti potenziali, come la salmodia, la pietà, l’educazione. Esperienze importanti che all’epoca erano probabilmente minoritarie rispetto ai fattori divisivi, ma che assumono particolare importanza alla luce del cammino ecumenico successivo al Vaticano II. Infine il volume, davvero polifonico nella capacità di tenere e di intrecciare il filo dei temi, rimette in prospettiva l’attuale questione di musica e liturgia in seno al cattolicesimo. Le polemiche di allora sono simili a quelle di oggi. Le risposte più efficaci dimostrano che frau musika sfugge a ogni presa e imposizione, ma è assai docile con chi la sposa.