Se lo scorso 6 aprile, su un parquet dell’A1 del basket femminile, non fosse accaduto il fattaccio degli insulti razzisti, per bocca di quegli pseudotifosi, «mentecatti» (citazione del presidente della Fip Dino Meneghin) della Comense Basket, forse non avremmo avuto la possibilità di conosce a fondo Abiola Wabara. La 29enne cestista, all’epoca in forza alla Bracco Geas Sesto San Giovanni (ora è passata alla Reyer Venezia), pur giocando nella Nazionale, non era così nota al grande pubblico. Lo è diventata con una reazione dignitosa e civile a quell’offesa assurda, supportata da tutte le sue compagne di squadra. Ma soprattutto dalla grande passione sportiva del suo ex presidente, Mario Mazzoleni, che con la Geas ha fatto di tutto per superare i vincoli burocratici che impedivano alla Federpallacanestro di considerare Abiola un’azzurra al 100%. Ora la Wabara è pienamente aggregata alla Nazionale che cercherà di arrivare ai prossimi Europei di basket femminile (dal 31 agosto in Lituania). Quello è stato l’ultimo successo ottenuto con il “family team” della Geas che in quei giorni bui di aprile, l’ha protetta dal grande circo mediatico che si era scatenato intorno alla ragazza di colore, vittima dell’intolleranza da ultimo stadio. In questo caso, da ultimo palazzetto. Una vigliaccata che non poteva cadere nel vuoto. Così, tutto il movimento della pallacanestro italiana la domenica successiva, prima di ogni gara decise di colorarsi di nero una parte del corpo. Il sociologo Mauro Valeri, (responsabile dell’Osservatorio sul razzismo e l’antirazzismo negli eventi sportivi) definisce i ragazzi di colore nati e cresciuti in Italia, come Abiola, dei “black-italian”. Nel calcio più volte è stato urlato da una Curva e scritto su striscioni contro Mario Balotelli che “non può esistere un nero italiano”. E purtroppo anche per la Wabara, che è nata e cresciuta a Parma da genitori nigeriani, quello vissuto nella sfida con la Comense non è stato il primo episodio di vergognosa discriminazione. «Vicende di razzismo mi erano già capitate in passato, anche da ragazzina e sempre in un palazzetto dello sport - racconta Abiola - . In Italia il razzismo c’è ed è inutile negarlo. Per alcuni può manifestarsi per ignoranza, nel senso letterale della parola, per altri a volte emerge solo per pura cattiveria. Ma sicuramente è un fenomeno che esiste e che va debellato». La sua lotta all’ignoranza o alla cattiveria intollerante, l’ha sempre portata avanti anche nel basket, con le prodezze del talento naturale. «Ho cominciato a giocare a 13 anni. Per caso passai davanti all’ufficio del Basket Parma e lì mi hanno notato». Impossibile non notare questa ragazza alta 185 cm e che in campo si muove con l’agilità di una gazzella. Era ancora una studentessa del Liceo Scientifico quando ha debuttato in A1. E nel 2002 è andata alla scoperta dell’America. «Ho avuto la fortuna di fare l’esperienza del college, alla Baylor University. Lì negli Stati Uniti, a differenza che nel nostro professionismo, sport e studio vanno in parallelo. Così mentre mi laureavo in lingue ho avuto anche la grande soddisfazione di vincere il titolo collegiale (Ncaa, 2005)». Dagli Usa in Israele, a Tel Aviv. «In Israele sono rimasta per tre anni e ho conosciuto una cultura affascinante come quella ebraica, imparando un po’ la lingua e migliorando ancora come cestista». Dalla Terra Santa, alla chiassosa e divertente Ibiza, aggiungendo alla sua collezione linguistica che comprende «anche il parmigiano» , oltre lo yoruba delle radici nigeriane, l’inglese e l’ebraico e infine lo spagnolo. «La grande ricchezza che mi ha trasmesso il basket è proprio questa, la possibilità di confronto continuo con culture diverse e spesso assai lontane tra di loro. In più, una palla a spicchi ha agito anche da supporto psicologico, togliendomi molta di quella timidezza che avevo da bambina». Il basket è una delle tante forme di espressione di questa ragazza che è un vulcano di idee e di interessi, a cominciare dalla pittura. «Mi piace dipingere e spesso i miei quadri rimandano alle figure della gente della Nigeria. I miei genitori sono tornati a vivere a Lagos e ogni tanto li raggiungo per delle brevi vacanze». La cultura “afro” la ritrova anche nella scrittura «che coltivo come sfogo emozionale» e soprattutto nella lettura. «Uno dei miei libri preferiti è stato
The book of night women dello scrittore giamaicano Marlon James. Ora sto leggendo
That thing around your neck della nigeriana Chiamanda Ngozi Adichie». Libri che adesso la seguiranno nella nuova casa di Venezia, città d’arte che le calza a pennello e nella quale dice: «Spero di conoscere presto le sue bellezze e di vincere il campionato con la Reyer». Il futuro è ancora nel basket e il sogno è quello anche di tornare un giorno in quella che considera «la mia seconda casa», l’America. E precisamente a Houston. «Se adoro Houston e gli Usa è perché lì si respira il vero spirito della multiculturalità. Negli Usa si possono incontrare persone di tutte le etnie che vivono in sintonia tra di loro. In più, intorno al basket femminile c’è un interesse popolare che non ho riscontrato in nessun’altra parte del mondo. Un giorno spero sia così anche in Italia...». La sfida della “black-italian” Abiola continua, da sottocanestro.