Per leggere questa intervista, su indicazione dell’intervistato, è consigliato l’ascolto in sottofondo di
Se me lo dicevi prima, di Enzo Jannacci. «Da bambino avevo una professoressa di pianoforte talmente sgradevole da innescare una sorta di panico prima delle lezioni, al martedì e al venerdì. A distanza di tanti anni, quando sento dire “martedì” e “venerdì” ho un attacco d’ansia...». È questo uno dei tabù di Diego Abatantuono, confessato all’amico fraterno – il giornalista e scrittore – Giorgio Terruzzi nella sua autobiografia cinegastronomica
Ladri di cotolette (Mondadori). E di venerdì è l’appuntamento per parlare dei suoi sessant’anni (li compie oggi), ma quell’ansia infantile diventa entusiasmo contagioso. Corpulenta, come la filosofia del Diego che crede nel «mens sana in corpore obeso, anche se per fortuna ho appena perso quindici chili». Debuttò quindicenne sul palco dell’ultimo tempio del cabaret, il Derby «dove mia mamma Rosa faceva la guardarobiera», fino all’ingresso nel cinema, passando dalle stelle alle stalle con il «terruncello» – affinato nell’accento con il dimenticato Giorgio Porcaro – di
Eccezziunale veramente. In mezzo attimi di oblio e la rinascita con Pupi Avati (
Regalo di Natale) e Luigi Comencini (
Il ragazzo di Calabria), fino alla consacrazione del 1992: l’Oscar di
Mediterraneo, dell’altrettanto fraterno Gabriele Salvatores. Film in cui il mattatore è sicuramente il Diego-sergente maggiore Nicola Lorusso.
Talmente fondamentale da non essere invitato alla festa di fine riprese a Kastellorizo...«Beh ma qui scoperchiamo un altro tabù... Quella sera dormivo, così quando io e Ugo Conti ci presentammo la festa era bella che finita. Uno choc: ma come, manca il rompiscatole e non ve ne siete accorti? E se ero morto? Sono domande che un quarto di secolo dopo faccio ogni volta che incontro Salvatores, Bisio, Bigagli, Alberti... e non se lo sanno spiegare. Io invece vorrei spiegarlo nelle università e in uno spettacolo che sto preparando per la prossima stagione. Mi preoccupa solo il peso della tournée, ho viaggiato già tanto per recitare storie».
Ma è vera quella che a Renzo Arbore (rimasto colpito da un suo sketch al Derby, poi lo scritturò per il Il pap’occhio) mamma Rosa disse: “Ma di chi parla, di quel deficiente di mio figlio Diego?”.«Certo che è vera – sorride –. Un figlio attore non era mica una cosa seria, tipo il figlio medico o avvocato. Provava vergogna e mi aveva trasmesso il suo stesso senso del pudore. Però ho capito presto che quella era la mia strada. Era troppo bello condividere il palco e le notti in giro, in quella Milano degli anni ’70 tutta da cantare e da raccontare, con quei compagni di vita incredibili, unici: Enzo Jannacci, Beppe Viola, Cochi Ponzoni, Renato Pozzetto, Paolo Villaggio (l’elenco, come gli aneddoti, richiedono sessant’anni: che faccio, continuo?). Venivo “ingarellato” se loro apprezzavano le mie battute, ma diventavo felice soprattutto quando rideva il Bistecca».
Chi è? Uno di “quelli che… da casa loro (Zurigo) vedono la Svizzera”?«No, il Bistecca era un cliente fisso del Derby, sua madre faceva la portinaia, lui mai lavorato. Un battutista eccezionale, e la sua risata era una garanzia per il successo della serata».
Dopo le risate del Bistecca chi è stato a scommettere sul giovane Abatantuono?«Il papà dei fratelli Vanzina, Steno, e Monica Vitti: mi cercarono per
Il tango della gelosia. Un botto al botteghino, così come i
Fichissimi, di Carlo Vanzina, e tutta la serie dei film con il terruncello».
Con quel personaggio non ha rischiato di autoimprigionarsi per sempre?«Non ho fatto in tempo a farmelo andare stretto perché è durato un lampo, dall’80 all’82. L’ha ucciso il mio agente stabilendo il record mondiale, ancora insuperato, di inflazionamento. Mentre, giustamente, Nuti, Troisi e Verdone facevano un film all’anno,a me ne fecero girare dodici in due anni. È come se Checco Zalone oggi fosse in sala con sei film l’anno: in quanto tempo si brucerebbe?»
All’istante, ma almeno quella super-serialità l’avrà gratificata in termini economici.«Macché, non mi pagavano e per colpa del mio agente c’era la fila dei creditori... Ero in mezzo a una campagna con la spada e il mantello a interpretare Attila che arrivava l’esattore, che mi diceva “metta una firma qui grazie” e se ne andava con la
rebonza, il malloppo. Mi rubarono pure un libretto bancario, ero rovinato».
Come ne è uscito?«Mi sono fermato un anno, ho ricominciato dal teatro e ho avuto la fortuna di incontrare Maurizio Totti, che è diventato il mio agente ma soprattutto un fratello con il quale, un capitolo alla volta, ho riscritto la mia storia di attore, diventando anche produttore. Assieme abbiamo fondato la Colorado Film».
E il vecchio agente che fine ha fatto?«So che se la passa malissimo, perché ha alzato la posta e ci ha provato con altri personaggi molto più scomodi di me, che in fondo sono sempre stato un buono».
Eppure al buono sul grande schermo si sovrappone spesso il personaggio cinico e superbo.«Ma perché i cinici piacciono di più: i normali purtroppo al cinema non incidono. Poi il cinico ha molte più debolezze, penso a quello sublime di Gassman ne
Il sorpasso… Non lo dico mai, per pudore appunto, ma Gassman mi ha sempre riempito di complimenti e una volta mi scrisse una lettera che conservo tra le cose più belle che mi ha dato questo mestiere».
Dei grandi della commedia all’italiana è rimasto Scola.«Con lui ho fatto quel bellissimo film sulla Shoah che è Concorrenza sleale. Ettore è un amico, a volte gli partono le chiamate dal cellulare, ed essendo il mio il primo nome della sua rubrica mi becco felicemente la telefonata. Rispondo sempre volentieri ai suoi auguri annuali: “Buon 25 aprile”. Stupendo».
Da Marrakech Express di Salvatores a Camerieri di Leone Pompucci, ha partecipato all’ultima stagione dei figli e i nipoti della commedia all’italiana.«Con la “quadrilogia” di Salvatores siamo partiti da lì, da quell’idea di cinema corale, dello stare in gruppo, magari mettendoci, e trasmettendo al pubblico, anche un pizzico d’amicizia sincera che è la molla per cui ho dedicato la mia vita al mestiere di attore».
Camerieri di Pompucci è bellissimo, meritava più fortuna, ma è figlio di un equivoco: Cecchi Gori lo produsse convinto che fosse un film nazionalpopolare e invece era una commedia cruda, monicelliana, cattivissima. Così non partecipò a nessun festival ed ora è ingiustamente dimenticato».
C’è un altro film in cui ha lavorato e che considera incompreso?«Sì,
Per amore solo per amore: una grande intuizione del debuttante Giovanni Veronesi, che mi diede un ruolo difficile come quello di san Giuseppe. Un copione bello e fedele al libro capolavoro di Pasquale Festa Campanile. Non so cosa abbia combinato De Laurentiis ma, a differenza di tutti quei film di genere religioso che danno in tv ad ogni Natale, questo non si vede mai. Mistero. Come misteriosa è Penélope Cruz [interpretava Maria,
ndr] che era al suo primo film italiano e lo ha rimosso, non ne parla, manco fosse un peccato mortale».
A proposito di peccati, che rapporto ha con Dio?«I miei sono per lo più peccati di gola... Ho investito tutto in cene, ma offerte agli amici che se la passavano peggio di me: magari potrei essere perdonato? Mi affascina la parola di Gesù come filosofo determinante, l’operato della Chiesa mi interessa di meno. Non sopporto che ogni tanto spunti fuori un “Papa buono”, come a dire che quello precedente fosse cattivo. Il Papa buono è un’eresia, i papi sono tutti buoni, così come i
selfie sono insopportabili».
È contrario alle nuove tecnologie?«No, anzi, su Facebook mi diverto a postare la mia foto accanto a quella del mio “sosia” Orson Welles, anche se poi mi deprimo: non c’è un giovane che sappia chi sia. In compenso a Milano mi riconoscono al punto che non posso più circolare. Scatta l’assalto per il
selfie, che comincia con un subdolo “so che la disturbo, ma la farebbe una foto con me?”. Da un po’ provo a difendermi: fingo di telefonare e dico ad alta voce, “ah, è morto…”. Poi quando vedo che il tipo non demorde, allora aggiungo: “Ma come, è morto pure lui?”. Ma non c’è niente da fare, il
selfiomane non molla neppure dinanzi all’annuncio di una strage famigliare».