Ne esistono diverse, di scuole che insegnano come si scrivono canzoni e come si diventa professionisti pop-rock. Però sono diverse dalle accademie di prosa o danza, e lo sono inevitabilmente: giacché il nostro cosiddetto Belpaese non considera la musica popolare patrimonio culturale come accade quasi ovunque. E quindi mentre in Francia celebrano Brel o la Piaf, quando negli Stati Uniti si passa ai giovani la lezione di Cash e Dylan è già materia di studio, in Italia si considera ancora la canzone “canzonetta” e la musica popolare “leggera”, stando ben lontani dal vero peso che quel mondo ha nella storia e nella cultura di una nazione. Perché ha ragione Mogol, uno dei massimi autori di testi di canzoni (da Lucio Battisti a Mango, Cocciante o Tozzi) quando sottolinea che «un libro di successo lo leggono in migliaia, una canzone la ascoltano in milioni»; e quando rincara la dose aggiungendo: «Dai dati della Siae l’80 per cento della cultura fruita dalla gente risultano essere le canzoni, non altre forme d’arte».E così, per capire che prospettive ci sono per chi sogna un futuro nel pop abbiamo scelto di puntare verso le campagne umbre del Cet, Centro Europeo Toscolano, fondato da Mogol nel 1992: perché oltre che essere un maestro della canzone, Giulio Rapetti (vero nome dell’artista, classe 1936) ha creato una scuola per autori, compositori, interpreti e arrangiatori ben consapevole che un conto è imparare l’arte del pop, un altro poterne fare un lavoro: specie in un Paese che non ne ha ancora compreso l’importanza storica e culturale.«Il Cet, pensi, nacque proprio quando mi resi conto che la cultura popolare andava incontro a inevitabile recessione», esordisce Mogol. «Era il 1990, e mentre sentivo l’esigenza di fuggire da Milano per vivere a contatto con la natura, mi resi pure conto che tutto si stava spostando verso canzoni mirate al puro profitto. La musica si dirigeva verso le esigenze di radio e tv, e purtroppo il tempo mi ha dato ragione, visto che oggi questi media sono persino editori di artisti importanti (vedi i Modà, nda) e dunque la qualità non conta più, anzi diventa da combattere in quanto concorrenziale». Nacque così ad Avigliano Umbro (Terni) il Cet, oggi centro di eccellenza universitaria, con metodi da college americano, molte possibilità per i giovani di farsi ascoltare in modo serio, insegnanti di livello (Mario Lavezzi e Oscar Prudente fra i tanti) e 2500 diplomati. «Per me era un dovere, aprire una scuola per passare i concetti vicini all’esperienza che io ho vissuto: pensi che Battisti suonava tutti gli strumenti, studiava otto ore al giorno e sapeva le parti di ogni musicista impegnato nelle sue canzoni: il talento dei talent show è una frottola, i geni sono pochissimi. Però tutti abbiamo doti, che vengono fuori assorbendo cultura e coltivandole». Così il Cet abbina lo studio delle tecniche (di scrittura, compositive, canore…) a un’attenzione precisa per l’uomo. «La persona è fatta anche dall’ambiente, ovvero i genitori, ma pure i libri. Oppure, parlando di canzoni, lo studio dei grandi del passato. Senza dimenticare che, vista la loro presa sui giovani, più alto è il livello delle canzoni più alto è il livello della gioventù: quindi donare a qualcuno un’armatura d’arte aiuta non solo quella persona, ma anche chi gli sta intorno». Il Cet collabora con istituzioni, l’Università La Tuscia di Viterbo, ora anche con l’Università per stranieri di Perugia. «E io insegno, se posso usare il termine, sempre senza compenso. Lavoro da 24 anni per l’imperativo morale che sento dentro, e non le nascondo che un po’ di frustrazione c’è. Non ci chiedono mai i nomi dei nostri allievi, né le tv né i discografici. Malgrado il successo di Arisa e tutti gli ex allievi che lavorano di musica. Amara, fra i giovani di Sanremo, ha colpito? Ecco, viene dal Cet. Ma l’industria del disco è legata al distorto concetto di talento degli show televisivi, e dimentica che se promuovo qualcosa che non possiede qualità, cultura e percorso serio alle spalle, questo qualcosa non può che avere destino effimero». Chissà se l’idea del pop come cultura arriverà prima o poi, finalmente, a chi ancora non prevede la musica “non-classica” quale parte integrante della cultura di un Paese. Sarebbe ora, anche se Mogol è comunque fierissimo del proprio educare i giovani al vero senso del far canzoni e del proprio ruolo storico. «Parole come “uggiosa” o “anelito” sono rientrate nel lessico comune partendo da canzoni mie…». Certo però i paradossi italiani restano molti se il nuovo e atteso progetto di Mogol, il melodramma
La capinera da Verga con musiche di Gianni Bella, debutterà fuori dall’Italia. «In ottobre al Cremlino di Mosca, sì. Poi girerà l’Europa: ma da noi non si poteva produrre perché una legge del ’67 impedisce finanziamenti a opere liriche non tradizionali. Spero di ricompensare Gianni (afasico dopo un ictus, nda) inserendo cinque nostre canzoni ancora inedite in un
Mogol Project».