È un Cavaliere dall’umore nero, quello che a Palazzo Grazioli assiste impotente allo «scempio» della decisione della Giunta per il regolamento del Senato. Il diluvio di comunicati delle sue truppe, amareggiate quanto lui, non lo consola. La procedura sulla decadenza avanza, è la triste considerazione di Silvio Berlusconi, e nessuno muove un dito in suo favore. Ieri mattina, ancor prima del voto in Giunta, la prima ferita è giunta quando il premier Enrico Letta ha ribadito su Radio anch’io quanto anticipato da alcuni quotidiani («Ci deve essere separazione fra le singole vicende giudiziarie e l’azione del governo») sbarrando definitivamente la porta alla richiesta di «una norma interpretativa di una riga nella riforma della giustizia, che sancisca l’irretroattività della legge Severino».
Poco dopo, arriva la notizia della pronuncia della Giunta sul voto palese e all’ora di pranzo i servizi dei telegiornali insistono sull’annullamento in extremis dell’incontro coi ministri a Palazzo Grazioli. In realtà, la colazione di lavoro era in forse dalla sera prima, quando al Cavaliere sarebbe stato prospettato l’esito negativo del voto in Giunta. E ormai è tempo di consiglio di guerra: arrivano prima i falchi Denis Verdini, Sandro Bondi, Daniele Capezzone e Giancarlo Galan. Bondi sferza le anime "tiepide" del partito con un paragone che lascia il segno: «Se una maggioranza comprendente il Pdl avesse imposto uno stravolgimento del regolamento parlamentare alla vigilia del voto riguardante un leader della sinistra, le piazze sarebbero in fiamme e le istituzioni sarebbero sotto assedio. E noi invece che facciamo? Ci limitiamo a delle belle dichiarazioni di facciata...». Il riferimento è a quanti ancora pensano di tenere insieme "capra e cavoli", cioè la difesa del Cavaliere e la tenuta del governo.
Più tardi a Palazzo Grazioli si recano anche il "consigliere diplomatico" Gianni Letta e i capigruppo a Camera e Senato, Renato Schifani e Renato Brunetta (che poi accompagneranno Angelino Alfano a palazzo Chigi per un incontro col premier sulla legge di Stabilità). In serata arriva Raffaele Fitto, che dopo una riunione dei lealisti a Montecitorio, assicura pieno sostegno al fondatore del Pdl-Forza Italia. Bisogna decidere per la linea dura, ripetono i lealisti al fondatore. E lui stesso pare convinto e si sfoga con chi gli è accanto: vogliono cancellarmi dal Parlamento senza tener conto del voto di dieci milioni di italiani. Poi rimugina sul gelo con una parte del partito: alcuni ministri e diversi parlamentari li considera ormai "perduti", ma non si rassegna a perdere quelli che sono cresciuti politicamente alla sua ombra, come l’eterno delfino Angelino Alfano, entrato nel partito in quel fatidico 1994 della «discesa in campo». Con lui, Berlusconi intende giocare la partita fino in fondo: voglio vedere se riuscirà a darmi scacco matto, è il suo ragionamento.
Il Cavaliere è pero anche consapevole che, se dovesse forzare la mano andando ad una nuova conta, senza i "governativi" non avrebbe i numeri per far cadere Letta. C’è chi gli suggerisce di anticipare il Consiglio nazionale (fissato per l’8 dicembre) a prima del voto sulla decadenza, per avere una conta in quella sede. Ma anche lì i governativi promettono battaglia: la stabilità di governo è «una risorsa da preservare» si legge in una bozza di documento, annunciata da Roberto Formigoni, che avrebbe l’adesione di 31 senatori, 32 -34 deputati e 280 consiglieri nazionali, e che dice no a «una linea politica estremista», confermando l’impegno nella «lotta contro l’uso politico della giustizia», ma senza «scaricare sull’Italia il prezzo di un salto nel buio».