Masse umane sbandate si spostano da uno Stato all’altro, e noi seguiamo gli itinerari, i passaggi dei confini, le marce a piedi, i trasferimenti in autobus, i controlli della polizia. C’è una cosa che ci sfugge, che non osserviamo attentamente, eppure è importantissima, e avrà conseguenze più lunghe: i bambini. Ci sono più rivelazioni nella faccia di un bambino di 10, 12, 14 anni, che nel racconto di un intero tg. È sempre stato così, nei cataclismi della storia. Dell’evacuazione del ghetto di Varsavia le SS scattavano foto, a futura (e per loro gloriosa) memoria. E tutti noi ricordiamo il bambino in cappotto lungo ma calzoni corti, in primo piano, a sinistra nella foto, che viene avanti tenendo le mani alzate: gomiti un po’ flessi, palme in qua.
Cosa capisce quel bambino? Niente. Cosa ci dice? Tutto: la massima violenza sulla massima innocenza. È morto, quel bambino, pochi anni fa, a New York, e tutti i giornali e telegiornali del mondo ne hanno parlato come del «bambino con le mani alzate», perché tutti erano sicuri che noi ce la ricordavamo ancora. In quella foto, padre, madre, fratelli, amici, sconosciuti, tutti vengono rastrellati casa per casa, cacciati in strada e incanalati verso i treni, per andare non sanno dove. Questo, e solo questo, doveva pensare quel bambino. La storia è violenza, chi può prende tutto, chi non può perde tutto. Altra foto: la bambina che scappa in Vietnam, strillando a bocca spalancata, nuda, seguita da due-tre marines in assetto da guerra, mentre alle spalle si alzano fiammate di napalm, le stesse che le hanno incenerito i vestiti. Quella bambina è cresciuta e s’è sposata qualche anno fa, e tutti ne hanno parlato: sanno che ce la ricordiamo, e ce la ricorderemo finché vivremo. È, da sola, per quella foto, il feroce atto d’accusa per quella guerra. E veniamo alle foto di bambini che vediamo in questi giorni, ieri, oggi, domani, nelle lunghe carovane degli esodi dall’Asia e dall’Africa verso l’Europa. Oggi le notiamo appena, o non le notiamo affatto. Ma quelle facce ci saranno ancora quando noi non ci saremo più. E ricorderanno quel che noi non ricorderemo. Guardiamole. La più drammatica è una foto di gruppo. Ma gruppo è una parola sbagliata, perché indica un insieme che ha un ordine. Se qui ci fosse un ordine, i bambini non sarebbero così esagitati. Siamo a un confine, tra Grecia e Macedonia. Poliziotti con gli scudi e con giubbetti antiproiettile. Fanno catena, chiudono i profughi di là, perché non vengano di qua. Però due bambini son già di qua, in primo piano, e urlano a squarciagola. Sono un bambino e una bambina. Fissano il vuoto, in alto. Hanno le ginocchia flesse, per lo sforzo di gridare più forte. Si tengono per mano, la mano sinistra di lui nella mano destra di lei, ma non è detto che siano fratello e sorella. In questo esodo, i bambini senza famiglia sono centinaia. Appena s’incontrano stringono amicizia fra loro. Questi due che urlano sono presi dal panico.
(Ansa/Epa)Ho visto altri bambini piangere così, e ricordo in quale occasione: nel terremoto. Il terremoto, per i bambini, è un tradimento della Terra. Tu ti fidi della Terra come della madre, se la madre ti tradisce ti dà di volta il cervello. Se ci fosse uno strumento qui, a fotografare il cervello di questi bambini, vedrebbe ciò che dalla foto risulta chiaro: hanno il cervello stravolto. Non sanno dove vanno, non sanno cosa sono gli scudi, cosa sono i giubbetti antiproiettile, perché alcuni uomini sono armati, perché alcuni vogliono passare e altri li vogliono fermare, a bastonate. Non capiscono perché mai loro, i bambini, sono andati via da casa, e se vanno verso un’altra casa, e quale, e dove. Lo scudo dei poliziotti è rettangolare, come quello dei romani, ed è fatto di plastica trasparente nella parte superiore, affinché colui che l’impugna possa picchiare chi gli sta davanti senza abbassare la protezione. Attraverso quella parte trasparente noi, che stiamo alle spalle del poliziotto, possiamo vedere chi gli sta di fronte. È un anziano, semicalvo, a bocca aperta. Anche lui sta gridando. Probabilmente sta chiedendo perché non si può passare. Non sappiamo la risposta. Un giornale ci riferisce un altro dialogo, da un’altra parte. Qui è il poliziotto che chiede: «Da cosa scappate?», «Dalla guerra», «E com’è la guerra?». E qui viene la risposta del fuggiasco, che spiega la propria fuga, la fuga di tutti, il problema suo e di tutti quelli come lui: «Tu non puoi capire».