mercoledì 13 novembre 2024
Non solo a Prato, con i primi cinesi, ma da Vicenza ad Arezzo aumentano le denunce di sfruttamento da parte dei lavoratori stranieri. Il presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto fa il punto
Jean-René Bilongo, presidente dell'Osservatorio Placido Rizzotto

Jean-René Bilongo, presidente dell'Osservatorio Placido Rizzotto - .

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I segnali di una nuova resistenza contro i caporali d’Italia partono da Pordenone, dove un gruppo di braccianti si è ribellato all’uso dei fitofarmaci (spruzzati anche contro di loro) nei campi agricoli e arrivano fino ad Arezzo, nel distretto dell’oro, con gli “schiavi” che lavorano 15 ore di fila e che hanno iniziato a dire basta. Non c’è solo Prato, con i lavoratori forzati del tessile pronti finalmente a denunciare, dai pachistani ai primi cinesi, come ha documentato recentemente Avvenire. «La ribellione è in atto da alcuni anni e ha avuto un’accelerazione dopo gli anni della pandemia, quando si sono incrementati i ritmi produttivi per recuperare ciò che si era perso – osserva Jean-René Bilongo, presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto -. Sono le stesse comunità di stranieri presenti nel nostro Paese a muoversi, ma il problema rimane a monte: chi gestisce la filiera? Di chi è la regia di questo immane sfruttamento?». Bilongo, originario del Camerun, è in Italia dal 2000 ed è un sindacalista della Flai-Cgil. Grazie al lavoro dell’Osservatorio, in questi anni, sono stati documentati fenomeni di sfruttamento e caporalato nascosti, e si è fatta luce su tanti business legati alle agromafie e non solo. Sul tavolo, c’è il rispetto dei diritti dei lavoratori e insieme la necessità di superare le condizioni di illegalità cui sono sottoposti. «I 200 milioni promessi dal governo per il superamento dei ghetti? Sono a rischio» spiega il coordinatore della Placido Rizzotto.

Jean-René Bilongo, partiamo dalle ultime proteste negli stabilimenti e dalle aggressioni subite da chi chiede dignità e giustizia. Siamo a un punto di svolta?

Se guardiamo a quanto sta accadendo, sicuramente dobbiamo riflettere sul fatto che l’indignazione generale, che sta iniziando a montare anche dentro la società civile, ha portato a interventi decisi della magistratura e alla creazione di pool anti-caporalato in alcune Procure. Prendiamo come riferimento l’indagine condotta dal pm Paolo Storari sulle grandi griffe della moda: c’è dentro tutto. È un riferimento prezioso per comprendere le connivenze chiare, plateali che riguardano interi settori, dal lusso al made in Italy. Il telecomando ce l’hanno in mano le grandi multinazionali, anche nei comparti della grande distribuzione e della logistica. Nessuno finora è riuscito a smontare l’impianto accusatorio: tutti sanno benissimo che non c’è alcun soggetto terzo che somministri lavoro dentro la filiera e che è la stessa grande azienda e il grosso brand a comandare su tutti i passaggi della catena, compresi quello dello sfruttamento finale. Per ragioni di profitto che non hanno senso, numeri alla mano.

Le comunità immigrate coinvolte in queste lavorazioni come stanno reagendo?

Sono sempre più consapevoli che i livelli di caporalato raggiunti sono spaventosi e che esistono stratagemmi studiati per mettere al riparo dai rischi il fruitore finale della manodopera sfruttata. Ma la responsabilità della denuncia è individuale, non collettiva. Ci sono singoli stranieri che hanno avuto il coraggio di uscire dall’omertà, ma ce ne sono molti altri che restano attratti dalle prospettive di guadagno e di lucro e non si fanno scrupoli a diventare “padroni” nei confronti dei loro connazionali. Il rischio di emulazione negli stili di vita c’è, basti pensare che nei campi sikh di Latina alcuni capi della comunità indiana girano con macchine potenti e costose, che ad Arezzo 2mila lavoratori coinvolti accettano ritmi di produzione disumani perché il distretto trasuda tanta ricchezza, che tanti in generale sono partiti da lontano per fare un’altra vita e avevano dei sogni. Ora sono disposti a tutto pur di realizzarli.

Lavoratori nei campi

Lavoratori nei campi - Ansa

Eppure, dal Pakistan al Bangladesh fino al Senegal, diversi gruppi si stanno auto-organizzando per rivendicare i propri diritti…

La morte atroce di Satnam Singh l’estate scorsa ha risvegliato le coscienze, è vero, ma tanti non hanno tempo di venire a denunciare… Si alzano prestissimo, lavorano troppo, vanno in giro su bici sgangherate, non sanno neppure dove presentarsi… Per questo, penso che le grandi organizzazioni sindacali debbano ribaltare la prospettiva: è necessario andare in strada, incontrare le persone nei loro luoghi di ritrovo, accompagnarle in chiesa, al tempio, nelle moschee. Farsi carico delle loro vite, mettersi in ascolto. Senza dimenticare che le nuove frontiere dello sfruttamento non sono solo quelle fisiche.

Allude all’algoritmo?

I software delle piattaforme di logistica fanno cose incredibili, al limite del disumano: una volta è stato impartito l’ordine di consegna a una persona che era già morta. Ci rendiamo conto? Bisogna uscire dall’immobilismo e farlo in fretta, smantellando la logica della burocrazia per cui siamo solo dei numeri e insieme dobbiamo percepire il disagio e la sofferenza degli sfruttati. Poi tocca alla politica fare il proprio lavoro, senza sottovalutazioni. Vuole un esempio? Gestione dei flussi migratori e lotta al caporalato devono essere temi distinti, invece vengono messi insieme. E poi deve esserci un regime sanzionatorio per chi sbaglia, a partire dalle aziende. Un’impresa che fa venire dall’estero un lavoratore e non lo contrattualizza deve essere punita, così come chi indica un livello minimo di retribuzione e poi lo disattende.

A che punto siamo con il piano di superamento dei “ghetti” per i braccianti, che prevedeva l’individuazione di soluzioni abitative per uscire da degrado e illegalità?

L’investimento sociale nel Pnrr, per il superamento dei “ghetti”, è stato importante: sono 200 milioni, per cui si è pervenuto a un riparto tra i 37 Comuni interessati dalla messa in sicurezza di queste aree. Il punto è che la disposizione normativa con la distribuzione dei fondi c’è stata, ma i fondi ancora non ci sono. I sindaci chiedono, a quanto mi risulta, ma il governo non risponde. Sono risorse mai messe a bilancio, eppure sono imprescindibili per completare il piano previsto. Certo, non giova confondere queste somme con la stessa cifra indicata da esponenti del governo per il possibile raddoppio dei Cpr, i Centri di rimpatrio, su base regionale. Sarebbe sbagliato non impegnare progetti e personale per realizzare la messa in sicurezza di queste aree, pensando magari implicitamente di poter dirottare gli stessi soldi su altri obiettivi.


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