Forse mai come in questi mesi è apparso chiaro che il destino dell’euro e dell’Europa dipende dalla Germania e, parimenti, come la simpatia per questo grande Paese sia forse ai minimi storici dal secondo Dopoguerra. La Germania appare arcigna e insieme meschina, ossessionata da un’intrattabile volontà di imporre ai partner europei la sua visione, consapevole che un suo 'no', oggi più che mai, equivale a un diritto di veto sul futuro dell’intero progetto continentale. Se molti ritengono inevitabile dover accondiscendere ai desideri di Berlino, torna a crescere la paura di un’Europa dominata dalla Germania. La nostra debolezza sembra fatta apposta per far risaltare la forza tedesca, i nostri vizi o semplicemente le nostre mollezze sottolineano la tetragona virtù alemanna...
Eppure, se solo provassimo a uscire dalle visioni stereotipate, figlie di una lettura della storia da sussidiario elementare, se tentassimo di liberarci dal clamore di arcaici timori legati a un passato lontano, potremmo percepire il sentimento che in questo momento pervade non solo l’animo della cancelliera, ma probabilmente di gran parte del popolo tedesco: la paura. Non si tratta della paura (razionale) di essere travolti dal debito greco o da quello italiano, cui i tedeschi stanno reagendo approntando (razionali) contromisure. La fredda e previdente razionalità tedesca è un mito talmente diffuso da aver alimentato in questi giorni insistenti dicerie su officine poligrafiche che nel cuore della Russia o nel profondo delle valli svizzere starebbero già discretamente stampando milioni di nuovi Deutsch Mark al posto dei 'vecchi euro'... No, non è il rischio di default a rendere inquieti i tedeschi. La paura cui alludo è un’altra, più sottile e irrazionale: è la paura di ritrovarsi ancora una volta di fronte alla sfida della leadership continentale, la paura di dover veramente comandare in Europa affinché l’Europa possa non soccombere alla crisi.Piuttosto che alla nostra paura verso la Germania, dovremmo forse prestare più attenzione alla paura della Germania verso se stessa. Perché tutte le volte che Berlino si è sentita sola al comando, come un ciclista in fuga durante qualche tappa alpina del Tour o del Giro, alla fine ha perso la sua sfida, spesso contribuendo a far perdere l’Europa tutta. La Germania sa, pensa di sapere che cosa vuole e meglio ancora che cosa non vuole. Ma teme di trovarsi sempre più isolata in questa sua posizione. Ha cioè paura di una leadership che non sia esercitata attraverso qualche istituzione collettiva, che ne stemperi la rude evidenza, ma non è più disposta a fidarsi dei suoi partner, a cedere qualcosa che consenta di calare l’interesse nazionale tedesco dentro l’interesse europeo. Chissà quante volte la cancelliera Merkel avrà in questi mesi pensato al suo mentore Kohl, che fu un artigiano instancabile nel costruire, non solo nel trovare, l’armonia tra Germania ed Europa.
Dovremmo smettere di aver paura della Germania e provare a capire che oggi più che mai è la Germania ad aver bisogno di essere rassicurata nelle sue paure. Dovremmo cercare di convincere la signora Merkel che ce la può fare a seguire le orme del suo maestro e portare al successo una generazione di leader europei che affrontano oggi la prima loro vera prova del fuoco rischiando di fallirla... Non è quella ciclistica la metafora appropriata per questa Germania, ma quella rugbystica. Alla squadra europea oggi serve un mediano coraggioso e intelligente, capace di audacia per mantenere la freddezza necessaria per estrarre la palla dalla mischia al momento giusto; ma anche di visione, per passare il pallone ai suoi trequarti e mandarli in meta, consapevole che se cercasse di giocare da solo farebbe ben pochi metri, prima di venire inesorabilmente placcato. Senza il coraggio e l’intelligenza la partita europea è persa per tutti, non solo per la Germania. Ecco perché, piuttosto che temerla, questa Germania va rassicurata sulle sue doti e sul fatto che non è sola, e richiamata con fiducia e con fermezza, come si fa in una vera squadra, alla sua responsabilità: garantendole che ognuno farà la sua parte per assicurare il sostegno decisivo a una vittoria che sarà di tutti o di nessuno.