sabato 1 ottobre 2011
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I toni ultimativi nei confronti del governo sono stati accantonati. Nelle parole dei leader del mondo imprenditoriale, che ieri hanno presentato il loro "Progetto per l’Italia", non si ritrova più quella sorta di preavviso di licenziamento che aveva caratterizzato alcuni interventi nei giorni scorsi. Ma solo perché la sfida è assai più profonda e decisiva «della credibilità del governo e della politica». Davvero, come si legge nel documento, «sono a rischio anni e anni di sacrifici. È a rischio la possibilità di garantire ai nostri figli un Paese con diritti, benessere e possibilità pari a quelli che abbiamo avuto fino ad oggi».Occorre partire da qui, dalla coscienza della posta in gioco, per analizzare la portata della proposta venuta ieri dalle rappresentanze imprenditoriali. Da tutto il complesso delle aziende italiane: grandi e piccole industrie, artigiani, commercianti, cooperative, banche e assicurazioni. Per la prima volta unite su una proposta, ovviamente opinabile e "di parte", ma concreta e dettagliata. Che ha il merito di proporre all’esecutivo in carica, all’opposizione e alle altre forze sociali una possibile agenda di discussione per far uscire il Paese dalle secche dell’inazione, per sottrarlo a quel declino che molti osservatori oggi credono irreversibile. E al quale invece non vogliono, non vogliamo arrenderci.Nel merito, le cinque questioni prioritarie evidenziate dalle imprese – spesa pubblica e pensioni, fisco, dismissioni, liberalizzazioni, infrastrutture ed energia – sono i nodi individuati da tempo. E sono evidenti non pochi punti di contatto con alcune proposte politiche sia di maggioranza sia di opposizione. Manca, però, una maggiore disponibilità, diciamo così "al sacrificio", da parte delle imprese stesse. Al di là dell’introduzione di una patrimoniale, infatti, non si fa alcun cenno al riordino degli incentivi (almeno 20 miliardi di euro) di cui godono. Né si spendono parole su come si possano conciliare l’(inevitabile) innalzamento dell’età pensionabile con la perdurante abitudine di buona parte delle aziende stesse a prepensionare o comunque a marginalizzare i lavoratori over-50. Soprattutto – ed è il deficit per noi più rilevante – manca una visione realmente prospettica sul fisco, che vada al di là dei bilanci aziendali. Limitarsi a scrivere che «andrà avviata la revisione dell’Irpef sui redditi più bassi» significa non aver compreso l’urgenza di una riforma assai più profonda ed equa, che promuova finalmente la famiglia, ne sostenga gli sforzi per allevare ed educare i figli, per curare gli anziani e i disabili. Il futuro del Paese e, dunque, lo stesso futuro delle imprese, in termini demografici e di coesione sociale, di capitale umano e di benessere, passa da quello snodo decisivo non certo meno che dall’alleggerimento delle imposte su lavoro e produzione pure necessario.Scrivono i portavoce del mondo imprenditoriale che «non intendono minimamente sostituirsi ai compiti che spettano al governo, alla politica, a chi rappresenta la sovranità popolare... ben sapendo di non rappresentare che una parte della società italiana». Corretto. È sempre più evidente, però, che solo il confronto e un’assunzione di maggiore responsabilità da parte delle rappresentanze di interessi collettivi può generare quello sforzo necessario all’Italia per risollevarsi. Il tempo degli uomini soli alle leve del comando e dei personalismi è davvero scaduto. La festa, per gli italiani, è finita da parecchio. E chi si attarda ancora col cappellino e la trombetta o rifiuta pregiudizialmente di discutere, evidentemente non ha compreso che il Paese chiede disponibilità, unità d’intenti e impegno concreto per uscire – insieme – da una crisi potenzialmente esiziale. Se si vuole evitare d’essere eterodiretti dai tecnocrati d’Europa – o peggio di doverne invocare interventi di salvataggio – occorre che torni la Politica. Quella che vaglia, media, media ancora e poi decide guardando al bene comune. Astenersi perditempo.

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