Diciamolo: la missione del «governo di servizio» guidato da Enrico Letta fa pensare a una di quelle avventure rese immortali dai classici della letteratura e del cinema. Una sorta di Giro del mondo in 80 giorni, per capirci, con la non trascurabile differenza che in questo caso la scommessa è al contrario: per raggiungere il traguardo (il rilancio dell’Italia dal punto di vista economico-occupazionale e degli equilibri politico-istituzionali), i giorni dovrebbero essere molto più numerosi rispetto al limite fissato dalla fantasia di Jules Verne per Phileas Fogg e per il suo cameriere Passepartout.Anche la posta in palio è superiore (altro che 20mila sterline...), mentre è senz’altro paragonabile la moltitudine d’insidie disseminate lungo il percorso. Lo vediamo in questi giorni con la vicenda delle ritornanti obiezioni all’«eleggibilità» di Berlusconi, da una parte, e con le proposte del Pdl sulla giustizia, dall’altra. Ma ieri una nuova spia rossa si è accesa sul cruscotto dello stracarico pallone aerostatico sul quale viaggia l’esecutivo di larghe intese: riguarda le riforme istituzionali e la legge elettorale. È stato annunciato, infatti, che entro la fine dell’estate il vigente meccanismo elettorale, noto come Porcellum, verrà corretto secondo le indicazioni della Corte costituzionale che, bocciando i referendum abrogativi della stessa legge, aveva di nuovo (come già nel 2008) sottolineato l’anomalia rappresentata dall’abnorme premio di maggioranza previsto per il primo partito o coalizione alla Camera dei deputati senza la fissazione di una soglia minima di voti o di seggi conquistati.Una buona notizia, a prima vista. Ma, sotto la patina di novità, risulta evidente uno dei rischi di cui si diceva. Già, perché si tratterà - è stato detto - di una «riforma minima», quel tanto che basta per «ricostituzionalizzare» il Porcellum. Il quale però rimarrà in vigore con tutti i suoi difetti tranne uno, quello appunto dello sproporzionato premio di maggioranza. Il pericolo è quello di precostituire un alibi per chi avesse l’intenzione di tornare anticipatamente alle urne senza aver dato al Paese una legge elettorale più degna di una democrazia rappresentativa e, soprattutto, le riforme istituzionali, più che mai indispensabili, come ha ripetutamente ricordato il presidente della Repubblica Napolitano e come hanno drammaticamente evidenziato le circostanze che hanno portato alla sua rielezione. L’unica reale garanzia sarebbe stata quella di anteporre le riforme stesse alla faticosa gestazione di una nuova, davvero nuova, legge elettorale. Anche sulla spinta di una sentenza della Cassazione (che la scorsa settimana ha sollevato la questione di legittimità del Porcellum davanti alla Consulta) è stata fatta una scelta differente, «di salvaguardia», che di fatto consisterà nella fissazione di una soglia minima di consensi per l’attribuzione del bonus. Con la certezza di negare ancora una volta agli italiani il diritto di scegliere i propri rappresentanti (anziché mettere una X su una lista di nomi scelti dai partiti) e con il concreto rischio - denunciato ieri anche dal segretario del Pd Epifani - di ritrovarsi il giorno dopo le elezioni «nella palude dell’ingovernabilità», ancora più che lo scorso 26 febbraio. Senza contare che, perfino su questa «riforma minima», ogni partito ha un’idea differente. Non rimane quindi che ancorare le speranze di cambiamento alle rassicurazioni del presidente del Consiglio Letta e del ministro per le Riforme Quagliariello, esponenti dei due maggiori partiti al governo. Il primo ha assicurato che «non torneremo a votare col Porcellum» né con un suo derivato, ma con una legge «che uscirà al termine di un percorso di riforme». Il secondo ha tratteggiato l’itinerario «complessivo» di questo riassetto istituzionale. Sarebbe il caso di piantare tali dichiarazioni come paletti e unirle con una robusta catena fatta di responsabilità e senso dello Stato, sulla quale appendere un cartello con una scritta antica: Hic sunt leones
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