«Noi che abbiamo la gioia di accorgerci che non siamo orfani, che abbiamo un Padre, possiamo essere indifferenti verso questa città che ci chiede, forse anche inconsapevolmente, senza saperlo, una speranza?». Le parole del Papa alla Chiesa di Roma, lunedì scorso, devono essere rimaste in mente, come incise, a molti di quelli che le hanno ascoltate. Parole come un grido, come di uno che ti urti e ti riscuota dal sopore. Siamo responsabili di testimoniare la nostra speranza a chi non ce l’ha, ha detto Francesco alla città di Roma, ma in realtà la sua esortazione vale per la città dell’uomo, per ognuna e per tutte.Perché la differenza esistenziale che passa tra chi ha fede e chi no sta innanzitutto proprio in questo nodo: nel ritenersi figli di un Padre che ha molto caro il nostro destino, o monadi lanciate nella storia da un caso cieco, e dunque padroni assoluti di sé, e, ciascuno, solo. Figli di un Dio vissuto nella carne, crocefisso e risorto, i cristiani affermano da duemila anni una rivoluzione che trascina in sé ogni morte e ogni male e dolore. Una rivoluzione, disse Benedetto XVI, che è «la più grande mutazione della storia dell’umanità». (Di tante millantate, sanguinose, epocali rivoluzioni, la sola che permane, la sola perennemente vera).Ma questa eredità pone, a chi la custodisce, l’obbligo di essere testimoniata, l’urgenza anzi, ci ripete con forza Francesco da tre mesi: spinto com’è dall’ansia di allargare l’ annuncio proprio là dove diresti che non interessi, non serva, e da nessuno sia cercato. Bisogna osare questa rivoluzione, ripete il Papa, anzi ai romani ha detto testualmente: «Un cristiano non rivoluzionario non è cristiano».Ora, immaginiamoci questa affermazione pronunciata nella sua nettezza in una delle nostre case di poveri credenti, di fede timida, di costanza ondivaga, di debole coraggio. La radicalità della domanda del Papa non ci spaventa, forse? Noi che chiudiamo la nostra fede, spesso, in un involucro privato, e non ne facciamo cenno magari neanche con chi da vent’anni ci lavora accanto: come attanagliati da uno strano pudore, se non forse intimoriti dalla enormità della stessa pretesa che professiamo – del nostro Dio nato da donna, ucciso e risuscitato.È come un vento forte la parola detta da Francesco a Roma, ma in realtà a tutte le città dell’uomo. A dire la verità, non ce ne sentiamo spiazzati? A noi sembrava già abbastanza restare fedeli dentro ai confini delle parrocchie, delle associazioni, delle amicizie in cui si è credenti come noi. Invece, il Papa insiste, la grazia cristiana va portata agli altri. E allora «è una lotta tutti i giorni contro la tristezza, contro l’amarezza, contro il pessimismo», ha ribadito ai romani. E questo, ha aggiunto, è il martirio, non della vita «ma di tutti i giorni, di tutte le ore».La poderosa fatica di resistere alla corrente che dice che nulla ha senso, e che il nostro destino si gioca sotto a un cielo cieco. La umile testarda ostinazione di restar fedeli alla promessa ricevuta, nello scorrere spesso opaco e monotono degli oneri quotidiani.Certo, una fede così non può vivere di moralismo o devoto ricordo di una memoria lontana, ma solo di un Cristo vivo, e operante oggi. La rivoluzione più radicale della storia si alimenta non in un dover essere, ma, audacemente, nel lasciare che in noi operi l’Altro. Solo così si può non spaventarsi davanti alla tensione rivoluzionaria di Francesco. Solo così si può non smarrirsi per ciò che non siamo, e per ciò che non sappiamo fare; e la sera, sui bus e sui metrò che ci riportano a casa stanchi, avere addosso ancora, nelle nostre città di uomini e donne scoraggiati e soli, la certezza che camminiamo dentro a un destino buono. E una serenità, così, nello sguardo, che meravigli e provochi gli altri, sconosciuti, accanto.