«La lotta alla disoccupazione, quella giovanile soprattutto è la stella polare dell’azione, della vita del nostro governo e sarà la nostra ossessione, giorno per giorno. E vorrei che il vertice europeo di fine giugno fosse dedicato a questo tema». Sono parole del neopresidente del Consiglio Enrico Letta a conclusione del suo breve tour nelle capitali europee (a Berlino, al cospetto della
Bundeskanzlerin Angela Merkel, a Parigi all’Eliseo ospite di François Hollande e infine a Bruxelles a colloquio con Van Rompuy e con il presidente Barroso): parole che non difettano di chiarezza e che insieme testimoniano di un esordio internazionale del tutto privo di complessi di inferiorità.
Di fronte a un’Europa – Berlino e Parigi,
i
n primis – che temeva un’Italia incline a reclamare sconti, proroghe, dilazioni, Letta ha confermato la volontà italiana di rimanere «all’interno dei confini degli impegni presi dall’Italia nell’ambito del Patto di stabilità». Confini stretti, che possono anche stritolare ogni accenno di ripresa, a cominciare da quel rapporto deficit/ Pil che si fatica a comprimere al di sotto della soglia fatidica del 3% e che ci impedisce per ora di uscire emendati e assolti dalle maglie della procedure per deficit eccessivo nelle quali siamo impigliati dal 2009. L’Europa – che in proposito dovrebbe pronunciarsi a fine mese – esige «misure credibili» per concedere fiducia, il che per l’Italia implica una gestione sorvegliata dei conti pubblici e una politica economica non troppo indulgente sulle regole di bilancio.
Ma come conciliare gli impegni europei con le emergenze economiche nazionali? Tradotto in cifre, i tecnici stimano che la sospensione dell’Imu, la rinuncia all’aumento dell’Iva, la copertura della cassa integrazione, le misure per lo sviluppo e i provvedimenti contro la disoccupazione inciderebbero come minimo per 7 miliardi di euro, ma la cifra più verosimile si spinge oltre i 10-11 miliardi. Miliardi di minore spesa o di maggior entrata. E qui sta il grande rebus irrisolto del nostro Paese (e non soltanto del nostro): rigore e crescita, dioscuri apparentemente inconciliabili, poiché come si è visto la pressione dell’uno immobilizza e strangola l’altro nonostante il monito severo che periodicamente giunge dalla sponda americana dell’Atlantico (in testa a tutti il premio Nobel Paul Krugman, che sul
New York Times ha clamorosamente smascherato il teorema di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff – fino a poco tempo fa indiscussi soloni di Harvard. Risultato: i tagli alla spesa, rivela Krugman, non alleviano affatto la crisi ma producono altra crisi insieme al decadimento dello Stato sociale). Messaggio che in qualche misura anche l’Europa sta recependo, se pensiamo che pochi giorni fa lo stesso commissario agli Affari economici e monetari Olli Rehn ammetteva la possibilità per i Paesi membri più virtuosi di allentare la morsa del rigore per poter così avviare le riforme per la crescita.
Inutile dire che subito si è levata la voce imperiosa del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, vigorosamente contrario a ogni cedimento sulle politiche di rigore. Messaggio implicitamente diretto anche al governo italiano, perché non si faccia troppe illusioni: Berlino, fa sapere l’arcigno custode della purezza contabile tedesca, non fa sconti. Aggiunge Merkel: «Il consolidamento di bilancio e la crescita sono due facce della stessa medaglia». Ma si tratta di un ben oleato gioco di squadra. Alla cancelliera preme soprattutto arrivare alle elezioni di settembre con l’
allure e il profilo di una lady di ferro. Per scongelarsi in un sorriso c’è sempre tempo. «L’Italia vede già la luce alla fine del tunnel della crisi economica», riconosce il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurría, nonostante per il nostro Paese si prefiguri un Pil al ribasso dell’1,5%. «Torno più ottimista di quando sono partito», gli ha fatto eco Letta al ritorno da Bruxelles. E guai a non esserlo.