Il lungo duello fra la Grecia e la Germania che si è concluso ieri nelle sale ovattate di Bruxelles con una tregua di quattro mesi – e che ha visto protagonisti il ministro delle Finanze di Atene Varoufakis e il suo omologo di Berlino Schäuble e come arbitri (non sempre imparziali) i presidenti dell’Eurogruppo Dijsselbloem, della Commissione Juncker, della Bce Draghi e del Fmi Lagarde – è qualcosa di più di uno scontro fra un Paese in grave sofferenza sociale e debitoria, prossimo al default e con il rischio di uscire dall’area dell’euro, e una nazione all’apice del proprio fulgore economico e politico, interprete severa e custode di un "rigore" da imporre a ogni costo. Dietro alla disputa sulle cifre, sulle dilazioni di pagamento, sulle riforme da completare, lo scontro vero si è consumato sulle parole, su un territorio semantico antico e radicato per entrambe le culture: di qua c’è la prevalenza germanica della colpa (
Schuld), della punizione (
Strafe), dell’espiazione (
Sühne), di là uno Stato simpaticamente "canaglia" come quello greco, dove la disobbedienza (
apèitheia), la frode (
apàte), la bustarella (
dorodokìa), l’arte di arrangiarsi sono antiche come le cariatidi dell’Eretteo e altrettanto resistenti allo scorrere del tempo. Il compromesso stesso per salvare la Grecia dal precipizio (riforme in cambio di tempo e di un allentamento della morsa dei creditori internazionali) viaggia sulla riformulazione di sostantivi come
troika e
memorandum, che nell’opinione pubblica ellenica rappresentano la fortezza da espugnare, senza peraltro che cambino davvero i vincoli che tengono Atene incatenata come Prometeo alle sue responsabilità e alle conseguenze degli errori ( e delle malizie) dei suoi governanti. Di suo, l’Unione Europea ha una caratteristica che può rivelarsi decisiva, forse l’unica della sua non sempre onorevole pagella: la predisposizione – per una sorta di macchinosa inerzia – al compromesso, alla chiusura e al superamento dei contenziosi. Accade con la maratona agricola, con l’assegnazione delle quote latte, con la distribuzione degli incarichi di vertice, accadrà anche con la questione greca. «Anche i sostenitori della linea dura come noi devono concedere il beneficio del dubbio a un comunista che indossa una sciarpa Burberry», è la battuta che circolava ieri all’indirizzo del ministro Varoufakis. Il che non ha impedito alla Bce di predisporre – com’è suo dovere statutario – un piano d’emergenza per affrontare l’eventuale uscita di Atene dall’euro.Ma in un’Europa in cui si staglia senza ombra di dubbio l’autorità incontestabile di un grande Paese come la Germania – capace di contagiare con la politica dei "compiti a casa" cara alla signora Merkel non soltanto i primi della classe come Olanda, Austria, Lussemburgo e Finlandia, ma da un po’ di tempo anche le tre Repubbliche baltiche e la Slovacchia, che questi compiti hanno assolto con successo – è necessario un salto di qualità, uno scatto di fantasia che convalidi quella leadership economica e da qualche anno anche politica. Perché ciò accada occorrono un leader, un pensiero, una meta condivisa. Teoricamente, la Germania li possiede già: nella complessa personalità della cancelliera Merkel si condensa quella capacità di mediazione, di fermezza e di lungimiranza (pensiamo solo al ruolo svolto nel tessere la trama complicata e fragile dei rapporti con Mosca) in grado di muoversi fra l’interessata intransigenza dei banchieri di casa e l’insofferenza che l’alleato della Spd comincia a mostrare nei confronti di quella vera macelleria sociale cui è stata sottoposta la Grecia negli ultimi quattro anni.Ora che i forzieri delle banche elleniche sono stati svuotati da una massa di risparmiatori in fuga (dapprima i ricchi, gli armatori, i palazzinari, che hanno cominciato tre anni fa, poi il ceto medio, ora anche il pensionato corre al bancomat a mettere in salvo quello che può), ora che perfino il turismo – unica vera risorsa della Grecia – flette paurosamente, ora che l’improntitudine guascona del giovane Tsipras è costretta a capitolare di fronte al gelido rifiuto dei donatori-creditori, s’innalza ancora più forte l’obbligo morale di salvare la Grecia. E non fingiamo di non sapere che nessuno meglio di Angela Merkel ha i titoli per farlo.