«Per me è stato veramente edificante, consolante e incoraggiante vedere qui lo specchio della Chiesa universale con le sue sofferenze, minacce, pericoli e gioie... Abbiamo sentito come la Chiesa, anche oggi, cresce e vive». Le parole di Benedetto XVI alla conclusione del Sinodo allargano il cuore dei cristiani: come quando su un sentiero aspro di montagna si cammina concentrati sui propri passi, e poi improvvisamente, distogliendosi dalla fatica e dall’affanno, si alza lo sguardo – e si rimane muti davanti alla larghezza della terra e all’infinito del cielo. La Chiesa, ha ricordato ieri il Papa con un accento di commozione, è sempre Chiesa di tutti i popoli, è sempre Chiesa di Pentecoste. (Così che se dalla propria particolare limitata visuale la fede sembra dentro un inarrestabile declino, altrove già sta cominciando a rinascere; spesso lontano, e dove non te lo aspetteresti, dopo lunghi anni di desertificazione, quando tutto sembrava finito).
Di «deserto» aveva parlato pochi giorni fa Benedetto; e però già suggerendo come proprio quel vuoto sia in realtà un possibile luogo e tempo di domanda. Nel deserto chi vuole vivere va a cercare un pozzo. Come la samaritana, ricordata nell’incipit del messaggio finale dei padri sinodali: che nell’arsura bollente di un mezzogiorno mediterraneo arriva al pozzo, con il suo secchio vuoto.
Ma «è l’acqua del pozzo che fa fiorire il deserto». È l’immagine della penultima riga del discorso del Sinodo. E chi, dopo avere scorso le riflessioni realiste e pensose dei padri sinodali, arriva a questa penultima riga, si ferma: a questa frase che suona benedizione e profezia. L’acqua del pozzo fa fiorire il deserto.
Chi sia passato dalla costa meridionale della Sicilia alla fine dell’estate sa come quella terra appaia, in quel momento dell’anno, totalmente prosciugata. Secca e aspra e quasi dolorosa la campagna, bruciata in ogni piega da un sole già africano. In una terra così, pensa chi passa, non può più germinare niente. Ma lo straniero dopo un po’ si accorge che nei giardini delle rare masserie, da dentro i muri di cinta, spunta una vegetazione straordinaria e lussureggiante: oleandri e bouganville sgargianti, e fiori che in Italia normalmente non vedi, grandi, coloratissimi, barocchi nei calici circondati da api adoranti. E quel profumo struggente dei gelsomini che si sporgono, incontenibili, dalle inferriate? Allora lo straniero capisce il miracolo dell’acqua: è l’acqua, che fa fiorire il deserto.
Noi lombardi fatichiamo a riconoscere quale dono sia l’acqua, giacché ne abbiamo ovunque e in abbondanza. Ma quella Sicilia riarsa e annichilita dall’agosto rivela cosa davvero genera vita anche nel più sassoso e brullo deserto: è l’acqua, che sgorga dai pozzi. L’acqua, che fa fiorire il deserto.
E cosa o chi sia poi davvero quell’acqua, noi cristiani lo sappiamo, o almeno lo abbiamo un tempo imparato. (Quelle parole nel silenzio e nella luce accecante, nell’aria immobile sotto il sole allo zenit: «Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è colui che ti chiede da bere, tu stessa gliene avresti chiesto, ed egli ti avrebbe dato acqua viva»).
Non c’è uomo o donna che, nella sua vita, non si ritrovi, come la donna di Samarìa, accanto a un pozzo con un’anfora vuota, hanno scritto i padri sinodali. Ma, hanno aggiunto come spinti da una urgenza, «sentiamo l’esigenza di dirvi che la fede si decide tutta nel rapporto che instauriamo con la persona di Cristo». Duemila anni dopo la Chiesa si rimette in cammino nella assolutezza di questa affermazione: tutto comincia dal volto di Cristo, vivo fra noi, non nobile maestro o pio ricordo. E poi, a chiusa, quella promessa: l’acqua del pozzo fa fiorire il deserto. Quelli delle grandi metropoli e quelli che abbiamo in noi. Sembra – ed è – benedizione, e profezia.