sabato 22 settembre 2012
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​Le vicende di Fiat, Ilva ed Alcoa sembrano tutte ricordarci quanto è difficile suonare lo spartito della globalizzazione in modo a noi economicamente propizio. Le prime due grandi leggi della globalizzazione sembrano, infatti, entrambe a nostro svantaggio. La prima legge (la dittatura del costo del lavoro) ci schiaccia sul problema dei differenziali di costo di manodopera e di tenore di vita. Secondo i dati dell’ufficio delle statistiche del lavoro americano, nel 2012 il salario orario lordo manifatturiero in Italia è fino a 30 volte superiore a quello pagato nel settore informale in Cina e India. La globalizzazione spostando il lavoro verso i Paesi in cui esso costa meno mette in moto processi di convergenza attraverso i quali i Paesi più poveri crescono più rapidamente di quelli ricchi. Si tratta, però, di processi lentissimi. Perché, se estrapoliamo i tassi di crescita attuali, nonostante il vento favorevole per i Paesi emergenti, ci vorrà più di un secolo per arrivare a una convergenza che porterebbe cinesi e indiani al nostro tenore di vita (ammesso che ciò sia compatibile con i vincoli di sostenibilità ambientale) eliminando il loro vantaggio competitivo. La seconda legge della globalizzazione (l’importanza di altre sorgenti di vantaggio competitivo) ci dice però che il divario di costo del lavoro non crea determinismi ineluttabili. I Paesi europei più competitivi, come la Germania, hanno un salario orario lordo manifatturiero superiore al nostro, ma non soffrono come noi la globalizzazione. È possibile dunque colmare il gap di costo del lavoro aumentandone la produttività attraverso investimenti e innovazione e con un sistema Paese che crea condizioni di contorno favorevoli (efficienza della PA, della giustizia civile, costi dell’energia contenuti, contrasto efficace alla corruzione e alla criminalità, riduzione del digital divide e banda larga, per citarne solo alcuni). C’è, poi, una terza legge che consiglia di non fossilizzarsi nella difesa a tutti costi della distribuzione settoriale dei posti di lavoro così come sono oggi. Quasi la metà degli aumenti di produttività in economia avvengono infatti attraverso trasferimenti dei lavoratori da un impresa a un’altra e da un settore a un altro. È chiaro che per avere la possibilità di sfruttare questa dinamicità e non rimanerne vittime abbiamo bisogno di sistemi di formazione permanente e di riconversione solidali ed efficienti, tali da evitare che i lavoratori che oggi vedono a rischio le loro tutele non restino abbandonati sulla riva dal fiume delle "magnifiche sorti e progressive", ma possano vivere da protagonisti questa stagione. Quanto alla distribuzione settoriale, siamo portati a pensare che il manifatturiero sia la colonna portante dell’economia quando invece oggi esso rappresenta tra il 15 e il 20 percento del Pil delle economie dei Paesi a più alto reddito. Solo i servizi alla persona (sanità e istruzione) arrivano al 30 percento. Questo non vuol dire che possiamo permetterci di smantellare le nostre grandi industrie manifatturiere, ma semplicemente che esistono anche altre vie per creare occupazione e che quello che conta è il saldo complessivo e non la singola perdita in un determinato settore. Una bussola che dovrebbe consentire di orientarci nell’agone globale in cui viviamo è quella di puntare su fattori competitivi non delocalizzabili. Dobbiamo, cioè, il più possibile cercare di specializzarci in qualcosa che è unico e difficilmente imitabile in altri Paesi. Esempi di risorse non delocalizzabili sono il paesaggio, il territorio, il patrimonio storico e artistico, in parte i prodotti agroalimentari perché a denominazione di origine controllata o frutto delle continue creazioni di nuove varietà nel settore vinicolo che non possono essere esattamente replicate in altri territori. Infine, dobbiamo domandarci se non sia possibile costruire regole che possano rendere il più veloce possibile la convergenza di costi del lavoro tra aree ricche e aree povere del Pianeta, per il nostro e per il loro bene. Come abbiamo già scritto su queste colonne, andrebbero costruite regole premiali per i prodotti ad alta tutela dell’ambiente e del lavoro nelle gare d’appalto; stimolata l’attitudine all’acquisto socialmente e ambientalmente responsabile dei cittadini. Non esistono purtroppo mani invisibili in grado di fare il lavoro per noi trasformando magicamente egoismi individuali in bene comune. Esiste invece lo spazio della politica e della responsabilità che ci chiede di lavorare per sviluppare il sistema Paese, creare le condizioni migliori per gli investimenti e al contempo favorire attraverso regole di responsabilità sociale ed ambientale il processo di convergenza dell’economia globale.
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