sabato 7 settembre 2013
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All’Angelus di domenica scorsa, Papa Francesco, rivolgendo il suo accorato e deciso appello perché «scoppi la pace» in Siria e in tutto il Medio Oriente, ed esortando vigorosamente «la Comunità Internazionale a fare ogni sforzo per promuovere, senza ulteriore indugio, iniziative chiare» fondate «sul dialogo e sul negoziato, per il bene dell’intera popolazione», ha precisato: «Con particolare fermezza condanno l’uso delle armi chimiche!». In sintonia con il magistero dei suoi predecessori, il Papa ha fatto proprio il convincimento di Giovanni XXIII, che è «del tutto irragionevole (alienum a ratione) pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (Pacem in terris, 67), senza tuttavia chiudere gli occhi di fronte alle violenze efferate contro la popolazione civile e inerme, in particolare i bambini e le donne, per le quali Giovanni Paolo II era giunto a invocare «azioni circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un’autorità riconosciuta a livello sopranazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi» (Messaggio per la Giornata mondiale della Pace del 2000). Dopo aver ricordato «quanti bambini non potranno vedere la luce del futuro» a causa di queste violenze sproporzionate e cieche, in riferimento ad esse Papa Bergoglio ha fermamente condannato l’uso delle armi chimiche. Sin dalla loro introduzione negli arsenali di deterrenza di alcuni Paesi nel secondo dopoguerra (insieme a quelle nucleari e biologiche), la Chiesa ha dichiarato l’illiceità di queste armi di distruzione di massa e la diplomazia vaticana si è adoperata con paziente determinazione e intelligente mediazione per sostenere tutti gli sforzi volti alla loro messa al bando internazionale. Dal 1993, la Santa Sede è rappresentata permanentemente nell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcv). A vent’anni dalla firma a Parigi della Convenzione sulle armi chimiche, entrata in vigore nel 1997 e ormai ratificata da 188 nazioni, la scorsa primavera a L’Aja si sono aperti i lavori per l’aggiornamento di questo trattato internazionale che proibisce la produzione, la detenzione e l’uso di armi a base di sostanze chimiche letali. Nonostante l’importante risultato sinora conseguito (è stato distrutto il 78% delle scorte di queste armi, una percentuale che entro il 2017 dovrebbe arrivare al 99%, con lo smantellamento o la riconversione a usi pacifici degli impianti di produzione), restano alcuni nodi irrisolti e la Convenzione deve essere ripensata alla luce dei recenti sviluppi tecnologici e strategici. Il primo problema sono i sei Paesi che non hanno sottoscritto la Convenzione – Siria, Corea del Nord, Egitto, Somalia, Sud Sudan e Angola – a cui si aggiungono Israele e Myanmar che, pur avendola sottoscritta, non l’hanno ancora ratificata. Oggi, però, tra gli attori di guerra e violenze della scena internazionale non ci sono solo gli Stati. Anche gruppi terroristici sono in grado di produrre aggressivi chimici letali sia attraverso la disponibilità di piccoli reattori compatti ("microreattori chimici"), più difficili da individuare dei grandi impianti, sia potendo contare su composti tossici – quali la ricina, un inibitore della sintesi proteica, e la sassitossina, una neurotossina paralizzante – sintetizzati sfruttando processi di tipo biotecnologico attualmente non contemplati dalla Convenzione. Infine, si va consolidando il consenso circa l’opportunità di mettere al bando anche sostanze chimiche invalidanti (per esempio, diverse fenilpiperidine), messe a punto per il controllo delle sommosse e dei disordini di piazza, che teoricamente non sarebbero letali, ma che possono diventare tali per persone con problemi di salute oppure quando la loro concentrazione nell’aria è elevata. 7È, insomma, urgente ritornare al tavolo del disarmo (non solo quello chimico) e far incontrare tutti attorno ad esso, perché, come ha ricordato il Papa, «la cultura dell’incontro, la cultura del dialogo; questa è l’unica strada per la pace».
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