Ciò che possono fare i terroristi jihadisti ormai lo sappiamo bene: possono odiare a morte, possono covare a lungo i loro progetti distruttivi, possono uccidere e possono uccidersi (anche se non tutti, come stiamo scoprendo, alla fine si fanno esplodere). Insomma e per principio, i sicari del califfo nero di Raqqa come i loro predecessori (e concorrenti) di al-Qaeda possono fare del male. Terribilmente. Perché sono nemici senza onore, soldati senza divisa, uomini e donne senza umanità, credenti senza Dio.
Sì, tutto questo ormai lo sappiamo bene. Così come sappiamo che la vulnerabilità delle nostre città e delle nostre società "aperte" è strutturale, quasi inevitabile se il mondo della libertà vuol rimanere tale, anzi intende diventare più responsabilmente se stesso, senza rassegnarsi ad ammainare la propria bandiera al cospetto degli atroci diktat degli strateghi dell’orrore.
Proprio per questo davanti al sangue innocente che ieri è stato di nuovo versato dai fanatici del Daesh, stavolta a Bruxelles, nel cuore – o nel ventre molle – dell’Europa che si definisce «unita», è tempo di cominciare a chiedersi, con più decisione e senza presunzione, che cosa possiamo fare, noi, europei di ogni fede e di ogni visione filosofica e politica, per rispondere alla sfida del terrore e per fermare e, poco a poco, svuotare la minaccia che incalza la nostra quotidianità, attaccando i nostri luoghi di vita e di lavoro.
Non sono solo i cristiani ad avere netta consapevolezza dei limiti di ogni intenzione e azione umana. E non sono soli nemmeno nel dare giusto valore alla forza di una stessa misura (etica e legale) accettata come bene comune. Chi ragiona così si rende facilmente conto di una basilare verità: i terroristi jihadisti si possono e si debbono affrontare con il corale ricorso ad adeguate misure di sicurezza, cioè ad azioni di polizia e di intelligence rigorose ed efficaci, ma la loro «violenza cieca» – secondo la dolente parola di papa Francesco – eppure miratissima non potrà mai essere neutralizzata se ci si limiterà solo a questo. Se cioè, come ha ricordato ieri il Papa stesso e come sottolineano molte voci religiose, a cominciare da quelle di diversi nostri vescovi, non si sarà capaci di netta e concreta rinuncia alla logica dell’odio, resistendo alla tentazione di operare scelte di «chiusura» che proprio da quella logica discendono. I muri non fermano gli scorpioni: offrono loro riparo, e condizioni ideali per allevare nidiate.
Fuor di metafora: i politici più seriamente realisti – e fa piacere registrare che il presidente del Consiglio italiano Renzi si sia schierato con determinazione tra questi – vedono e dicono con chiarezza che nessuna barriera convenzionale potrà mai garantire la sicurezza degli europei. E che non sarà certo la decisione di trasformare "a tavolino" le vittime della guerra in Siria, in Iraq e in Afghanistan in nemici dell’ordine pubblico a darci tranquillità e, ancor meno, a salvarci l’anima. È invece indispensabile lo strumento di una cultura condivisa, fondata sui valori saldi e riconoscibili della intangibile dignità di ogni persona umana e di tutto ciò che ne discende, comunicata nella scuola – per questo è giustissimo che, oggi, nel Belgio in lutto nazionale, le scuole siano tutte ostinatamente aperte – e attraverso reti sociali che contribuiscano a un’autentica integrazione dei nuovi cittadini immigrati e dei vecchi europei marginalizzati.
Lo sappiamo, qualcuno pensa e grida che questa sia un’idea velleitaria e buonista, un’«arma spuntata» (o addirittura controproducente) nella civile battaglia per costruire e garantire la convivenza nella differenza, ma è vero esattamente il contrario: solo questa base comune forte è l’antidoto al sospetto, allo scontro e alla sopraffazione. Senza di essa si creano le condizioni dell’incomunicabilità, dell’antagonismo settario, delle ghettizzazioni, delle strumentalizzazioni, della disgregazione e infine dell’assassinio pianificato. Cioè della guerra, in tutte le sue forme.
Questo è il nemico che possiamo e dobbiamo sconfiggere insieme. Il terrorismo islamista è un sintomo lancinante del grande male. Che va riconosciuto e lavato via.