Come si fa, nell’arco di una sola giornata, ad abbracciare una città intera? Una città grande e unica, fatta di luce e ombre nette, e ricca e povera insieme, e violenta, a volte, eppure non disperata. Il Papa c’è riuscito, e nelle strade gremite di Napoli è apparso, alla sera, stanco ma allegro – come uno che sia tornato a casa. Forse ricordandogli quella folla, quei cori, quelle facce, le strade della sua Buenos Aires.
E Napoli, a sua volta, ha abbracciato il Papa, nelle piazze gremite, e nei balconi con i grappoli di persone affacciate. Ma, se un’immagine può valerle tutte, allora resterà quella delle claustrali, in Duomo, uscite per la prima volta dopo una vita in convento, che cogliendo di assoluta sorpresa il servizio d’ordine sono salite svelte sull’altare, e si sono strette a Francesco.
Una giornata per una città intera, che aspettava quell’uomo, istintivamente cogliendo un’affinità con lui. E spesso il Papa a Napoli, come già ad Assisi, ha tralasciato i testi preparati e ha detto ciò che gli veniva sulle labbra al momento; in Duomo, davanti ai sacerdoti, quei fogli li ha messi via con decisione («I discorsi sono noiosi», ha detto), e ha parlato a braccio.
Ha voluto parlare a tutti, e a ognuno. A Scampia, dove agli uomini e donne di una periferia travagliata e multietnica ha ricordato che «siamo tutti migranti, siamo tutti in cammino». Al carcere di Poggioreale ha pranzato con 120 detenuti; e a uno che gli chiedeva che ne sarebbe stato di lui, dopo anni di prigione, ha ricordato una storia spesso dimenticata, e cioè che il primo uomo chiamato in Cielo da Cristo è stato il buon ladrone.
A Piazza del Plebiscito, ancora alzando gli occhi dal testo scritto, ha parlato a chi fatica a tirare avanti; e strofinando due dita nel gesto che indica i quattrini ha messo in guardia dai denari sporchi: «Questo – ha detto – è pane per oggi, e fame per domani...». Ma non ha dimenticato nemmeno quelli che non erano scesi in piazza, ma stavano magari davanti a una tv accesa in certe case, cui ci si avvicina con paura; e a loro ha chiesto, accorato, di lasciarsi trovare dalla misericordia di Dio.
Ai sacerdoti e alle suore, in Duomo, ha detto molte cose, ma in fondo una sola: Cristo, un intero discorso centrato su Cristo. Sulla misericordia, sulla testimonianza, sulla povertà scelta, sulla gioia che viene da Cristo. La sola che convince, e che contagia.
Ha abbracciato i malati, in quella lingua del corpo che accompagna nel dolore. E infine sul Lungomare, col blu del Mediterraneo alle spalle, ha chiesto ai figli di non abbandonare i vecchi genitori; agli sposi, di perdonarsi ogni sera, e sapere testimoniare un amore che non finisce; ai ragazzi, che gli chiedevano conto dei silenzi di Dio, ha risposto quasi umilmente, come chi pure è impotente di fronte al dolore, che il nostro Dio è anche il Dio dei silenzi. Del silenzio che avvolgeva Abramo, quando saliva monte per sacrificare il figlio Isacco, del silenzio immane che cadde attorno alla Croce. «Non ho ricette», ha ripetuto con semplicità Francesco: nessuna se non quel guardare la Croce, pregare e sperare: «Sperare è già resistere al male. È guardare al mondo con lo sguardo e con il cuore di Dio», aveva detto la mattina.
Limpide, antiche verità cristiane pronunciate guardando le gente negli occhi, come desiderando di poter comunicare a ognuno. Ieri, Napoli si è sentita guardata con uno sguardo buono. Di modo che quando, in Duomo, il cardinale Sepe ha mostrato che nell’ampolla il sangue di San Gennaro stava iniziando a liquefarsi, la piazza, affatto sorpresa, è scoppiata in un boato felice – quasi come dopo un bel goal, su cui contava.
Nella tradizione cristiana si dice che è la fede degli uomini, la condizione necessaria che rende possibili i miracoli. E ieri a Napoli quanta gente ha pregato, e domandato, e sperato. Ed è tornata a casa conscia che «sperare, è già resistere al male». Che sperare, dunque, è, ogni giorno, un cominciare. E questo è, forse, il miracolo più grande.