Alla nota aspra del «declassamento» del debito sovrano dell’Italia, sentenziato nottetempo dall’agenzia di rating statunitense Standard & Poor’s, ha fatto eco ieri una serie di altre note strambe e stonate. Il solito dissonante e dissennato concerto all’italiana degli ultimi anni, purtroppo. Inaugurato da una nota di Palazzo Chigi quasi più dura con i giornali nostrani (e i retroscena di cui abbondano facendo specchio alla realtà) che teso a controbattere certi dispensatori di pagelle (che andrebbero affrontati e non assecondati quando mescolano speculazione politica e valutazione tecnica). Il resto lo hanno fatto, in attacco e in difesa del governo, quelli che dalla cattiva notizia hanno tratto polvere da sparo per i loro cannoni.Trema la mano nello scriverlo, perché si tratta del luogo comune per eccellenza, ma oggi più che mai l’Italia avrebbe bisogno di ben altro. E se lo merita. La solitaria «A» attribuita a questo nostro Paese non è, insomma, l’iniziale dell’albero a cui verremo appesi dagli scuoiatori di economie indebitate, gli stessi che stanno esercitando le lame sulla Grecia. Ma dipende da noi, solo da noi. Da noi: seconda potenza manifatturiera d’Europa, terzo grande mercato della Ue, diciannovesima società al mondo per sviluppo umano, ma anche sistema che non va oltre la quarantaduesima piazza nella classifica della competitività (in classifica, per intenderci, siamo tra le Filippine e il Perù, due grandi Paesi in via di sviluppo dai quali si originano forti flussi di immigrazione proprio verso le nostre città) e, soprattutto, nazione in via di rapido invecchiamento (con un indice di natalità – 1,41 – ancora e sempre da «suicidio demografico») e detentrice del terzo debito pubblico mondiale per grandezza. Un debito frutto di una spesa pubblica non governata a dovere tanto quanto di una lunga e irresistibile propensione "a vivere al di sopra delle possibilità" e di una massiccia evasione fiscale. Un debito che l’impennata continua dei rendimenti dei nostri titoli di Stato rende interessante per chi può lucrarci su e sempre più gravoso per noi e per i nostri figli. È un passato che mortifica il presente e minaccia di mangiarsi il futuro.Tutti hanno ormai capito che siamo in un duro e inevitabile passaggio della vita nazionale, reso più complicato dall’inesorabile e progressivo consumarsi di una stagione politica. Una fase tormentosa che può tuttavia convertirsi in un tempo utile e buono per il Paese. Il tempo della consapevolezza dei problemi e delle forze che abbiamo, delle risorse che possiamo e dobbiamo valorizzare e impegnare, delle riforme che non ha più senso rimandare. Ha ragione il capo dello Stato: non dobbiamo sentirci più piccoli. Ma realisticamente più impegnati. Questo Paese è ricco di gente che sa lavorare e fare impresa, che ha il senso della famiglia e non si limita a "tener famiglia", gente che è disposta a fare sacrifici per una causa giusta e ben spiegata, che paga le tasse e che vorrebbe essere aiutata a pagarle con serenità e convinzione, gente che insegna, fa ricerca e studia. Gente che non è d’accordo su tutto, ma è capace di riconoscere l’essenziale, ciò che dà valore e fondamento e senso all’essere comunità: la forza morale di un popolo. Poi c’è una seconda Italia: ci sono i furbi e i malfattori, i disonesti e i criminali. E ce n’è una terza ancora: quella di chi pensa di salvarsi su piccole (e fragili) scialuppe, quella dei rassegnati al peggio e degli ideologi del declino economico e morale. Sono queste altre Italie, in fondo, a comporre le due «A» mancanti alla pagella comune. E, in tal senso, piacerebbe averle perse davvero e per sempre.Per chi ci governa, a cominciare dal presidente del Consiglio, per chi siede in Parlamento, per chi rappresenta e guida le grandi parti sociali questo è, dunque, il momento del coraggio e del disinteresse personale e di fazione. Al culmine di una crisi di fiducia senza precedenti nei confronti della classe politica e dirigente che coincide – e non è solo un caso – con i giudizi sferzanti e anche ingenerosi che ci piovono addosso, hanno l’occasione di dimostrare che stanno con l’Italia che è in «A», che sono davvero al servizio di quell’Italia. Anche se troppo, quasi tutto, sembra congiurare contro, è il momento delle convergenze possibili, delle priorità chiare, delle scelte trasparenti e delle proposte pulite.