martedì 4 giugno 2024
A dettare la scelta del direttore generale della Sanità lombarda, ora condannato, fu l'etica su cui è fondato il sistema sanitario e non una "concezione personale". Il parere della costituzionalista
Bappino Englaro, papà di Eluana

Bappino Englaro, papà di Eluana - Ansa

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La condanna di Carlo Lucchina al pagamento di 175mila euro decisa dalla Corte dei conti risulta paradossale, specie allorché si spinge ad affermare, come si apprende da organi di stampa, che fu una «concezione personale ed etica del diritto alla salute» a spingere l'ex direttore generale della sanità della Lombardia a rispondere negativamente alla richiesta di dare la morte a Eluana Englaro in una struttura sanitaria lombarda. All’intimazione del padre di Eluana Englaro di indicare una struttura presso cui distaccare il sondino naso-gastrico che alimentava la figlia, in stato vegetativo, così da indurre la morte cerebrale, Lucchina – allora direttore generale della Sanità in Regione – con una nota rispose che «il personale sanitario non può sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiale del paziente. Il personale sanitario che procedesse in una delle strutture del Servizio sanitario alla sospensione verrebbe dunque meno ai propri obblighi professionali e di servizio anche in considerazione del fatto che il provvedimento giurisdizionale, di cui si chiede l’esecuzione, non contiene un obbligo formale di adempiere a carico di soggetti o enti individuati». Infatti è la Convenzione di Oviedo, e non la tesi di un singolo, a prevedere che «un intervento non può essere effettuato su una persona che non ha capacità di dare consenso, se non per un diretto beneficio della stessa» (art. 6). Del resto non solo per la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), ma anche per la Costituzione italiana, dal diritto alla vita, primo dei diritti inviolabili dell’uomo, discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. E ciò vale a maggior ragione nei confronti dei soggetti più deboli e vulnerabili, come sono senza dubbio le persone prive di coscienza, o i soggetti incapaci, privi di autonomia, impossibilitati ad esprimersi, che restano titolari del diritto alla vita e alla salute. Nel caso Englaro, oltretutto, la famosa sentenza della Cassazione 16 ottobre 2007, n. 21748 autorizzò il tutore, e non un medico o una struttura sanitaria, a distaccare il sondino. Fu il Consiglio di Stato, in seguito, con la sentenza n. 4460/2014, a trasformare la suddetta “autorizzazione” in un “obbligo” di assecondare la richiesta del tutore e di fornire la “prestazione” consistente nel distacco del sondino.
Anche la presunta irrevocabilità della sentenza Englaro (secondo il Consiglio di Stato i provvedimenti del caso avrebbero avuto autorità di giudicato) è paradossale: la Cassazione decise infatti in sede urgente - per definizione non definitiva - sulla più irrevocabile e definitiva delle decisioni, quale è quella che attiene alla morte di una persona del tutto impossibilitata a esprimersi e ad autodeterminarsi. Come dare torto e addirittura condannare per danno erariale chi, in questa ingarbugliata vicenda, ha fatto proprio il principio di precauzione, in specie quello in dubio pro vita, che accompagna da sempre l’esperienza umana, etica e giuridica e che, come sancito nei documenti in tema di fine vita dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, esige che «in case of doubt, the decision must always be for life and the prolongation of life» (in caso di dubbio, la decisione dev’essere per la vita e il prolungamento della vita).
* Costituzionalista Università La Sapienza-Roma, membro del Comitato nazionale per la Bioetica

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